E’ stata presentata dal M5S una
interrogazione parlamentare sul decreto filiazione del 28 dicembre
scorso, che ha di fatto abrogato una legge dello Stato.  Una azione
gravissima in quanto è avvenuto senza passare dal necessario dibattito
parlamentare. L’unico soggetto politico ad
affrontare questo temo sollevato dalle associazioni genitori e dalla
società civile è il M5S attualmente è l’unico che ha preso una posizione
chiara contro quello che da tutti è considerato un atto arrogante del
governo – e dei suoi ispiratori – contro l’affido condiviso. Speriamo
che altri esponenti della politica nazionale, nei prossimi giorni, si
aggiungano al coro di protesta.
Atto Camera Interrogazione a risposta in commissione 5-01943 presentato da
BONAFEDE Alfonso testo di Mercoledì 22 gennaio 2014,
seduta n. 157 BONAFEDE, BUSINAROLO, COLLETTI e TURCO.
— Al Ministro della giustizia.
— Per sapere –
premesso che: nella XIV legislatura il
Parlamento ha approvato a larghissima maggioranza la legge 8 febbraio
2006, n. 54, recante disposizioni in materia di separazione dei genitori
e affidamento condiviso dei figli, la cui principale portata innovativa
di questo testo, in linea con l’orientamento dei Paesi dell’Unione
Europea, risiede nel riconoscere che «anche in caso di separazione
personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un
rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere
cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti
significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale»;
un rapporto, dunque, non ideale e astratto, ma chiamato ad avere
concretezza nel riconoscimento al figlio di pari opportunità nel
riferirsi ai due genitori – gravati da identiche responsabilità
genitoriali – anche nella loro frequentazione, di principio paritetica,
tanto che qualsiasi riferimento a un solo genitore «convivente»,
«collocatario», «domiciliatario» e simili è stato accuratamente cassato
dal legislatore e che alcune sentenze già iniziano a stabilirne il
doppio domicilio (ad esempio, Ordinanza TO Firenze, 4 aprile 2012);
all’interno della stessa logica, per iniziativa al femminile,
all’interno della nuova legge quadro per le pari opportunità per la
donna e sull’esempio del Belgio, il Senato francese in data 17 settembre
2013 approva la «residence partagée paritaire», che prevede un uguale
impegno per i genitori nei confronti del figlio, che ospitano in ugual
misura; questa previsione di legge e queste visibili e uniformi tendenze
del diritto di famiglia europeo hanno trovato per ora un non adeguato
riscontro nella giurisprudenza italiana che in prevalenza continua a
promuovere il modello monogenitoriale, investendo una figura non
prevista dalla legge, il «genitore collocatario», del compito di
provvedere a tutto, ricevendo dall’altro del denaro quale unico
contributo alle necessità dei figli, a dispetto delle sopra ricordate
prescrizioni, ma anche del più generale diritto del minore alla
bigenitorialità, enunciato a parole, ma non accolto nella sostanza;
queste disfunzioni, ripetutamente segnalate al Parlamento, sono già
divenute oggetto di iniziative di legge ordinaria, sia nella precedente
legislatura che nella attuale, e sono stati acquisiti gli importanti
contributi di decine di soggetti esperti della materia, fino al punto di
elaborare e approvare in Commissione giustizia del Senato (XVI
Legislatura) emendamenti migliorativi del testo attuale, in grado di
garantire al minore i diritti riconosciutigli dalla legge n. 54 del
2006;
il decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154, dal significativo titolo
«Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione a norma
dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219», attiva una
quantità di interventi a modifica degli articoli del codice civile in
materia di affidamento dei figli di genitori separati, che, se non
adeguatamente interpretati, rischiano di introdurre, o legittimare,
applicazioni distorte delle norme già vigenti, ripercuotendosi in modo
ulteriormente riduttivo e penalizzante sul regime di vita di minori. in
riferimento alle citate preoccupazioni si segnala l’intervento
sull’articolo 155 terzo comma del Codice civile che nella versione
novellata aggiunge agli obblighi della coppia separata quello di
concordare la «residenza abituale» dei figli, termine utilizzato
tipicamente nel contesto della sottrazione di minore (Convenzione
dell’Aja, 1980) e che per valutazione unanime della dottrina (ex multis
G. De Marzo, in «Minori oltre confine», Milano, Wolters Kluwer Italia,
2009) non ha carattere di concetto giuridico, ma solo di nozione di
fatto, con tutte le relative ambiguità. Dunque definizione non univoca,
ma soggettiva, che comporta la valutazione del «luogo in cui il minore,
in virtù di una durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il
centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, derivanti dallo
svolgersi in detta località la sua quotidiana vita di relazione» (Cass.
Civ. 22507, del 19 ottobre 2006). Visione costantemente condivisa e
confermata dalla Suprema Corte, in particolare con l’ordinanza a sezioni
unite n. 3680 del 17 febbraio 2010, mentre il grado di opinabilità e
incertezza che ne discende può essere esemplificato dalla
giustapposizione tra Cass. 3798/2008 e Cass. 13936/2009, che valutano
con criteri opposti il radicamento della prole (review in N. Di Lorenzo,
«La nozione di residenza abituale del minore vittima di sottrazione
internazionale», Quaderni Europei, Univ. Catania, Online working paper
il 50, marzo 2013);
la conseguenza dell’introduzione dell’obbligo di cui al citato decreto
legislativo, ove inteso nel contesto di cui sopra, sarebbe quella che
nel codice civile lo stesso termine, residenza, sia da intendere in modo
diverso da un articolo all’altro, visto che la «residenza» così come
definita all’articolo 43 del Codice civile è indubbiamente quella
anagrafica. D’altra parte, sostenere che è la presenza dell’attributo di
«abituale» a cambiarne il senso significa concludere che l’ascendente,
per individuare il giudice al quale rivolgersi per far rispettare il suo
diritto di contatto con i nipoti (articolo 317-bis novellato) debba
prendersi la responsabilità di valutare una situazione di fatto, in modo
del tutto aleatorio, anziché giovarsi del dato anagrafico certo, visto
che anche tale articolo fa riferimento alla residenza abituale;
in particolare, come osservato in dottrina (M. Maglietta, in «Quotidiano
del Diritto», 14 gennaio 2014), una applicazione dell’articolo 337-ter
comma 3 che volesse far prendere impegni sulla base di situazioni «di
fatto» presenterebbe probabili profili di incostituzionalità in aggiunta
a ingestibili difficoltà operative. Per queste seconde, non si vede
come individuare criteri certi nell’identificare il «radicamento» del
figlio nel caso usuale della separazione tra cittadini italiani che
semplicemente avranno due abitazioni diverse in genere nella medesima
città, in assenza di frontiere e confini di stato. Né è comprensibile
l’obbligo imposto a una coppia in separazione, e spesso in lite, di
assumere concordemente una decisione ove questa rappresenti ben più di
un atto amministrativo, reversibile in qualunque momento, come
l’iscrizione all’anagrafe, ma un impegno di fondo, dando carattere di
stabilità ad una opzione che, proprio perché la famiglia si è appena
disgregata, ha di per sé i caratteri dell’incertezza;
sul piano della costituzionalità è da rammentare l’articolo 45 comma 3
del Codice civile, che recita: «Il minore ha il domicilio nel luogo di
residenza della famiglia o quello del tutore. Se i genitori sono
separati (…) o comunque non hanno la stessa residenza, il minore ha il
domicilio del genitore con il quale convive». Un articolo compatibile
con il diritto alla bigenitorialità introdotto dall’affidamento
condiviso se, essendo il figlio affidato a entrambi i genitori con i
quali ha equilibrati contatti, senza «genitori collocatari», ne segue
semplicemente che ha doppio domicilio. Non così se si obbligano i
genitori – ai sensi dell’articolo 337-ter – a indicare una «residenza
abituale». In questo caso verrebbe stabilito a priori un rapporto
privilegiato di appartenenza, che non potrà ovviamente riferirsi ai
luoghi – che nelle situazioni ordinarie non sono portatori di
particolari valenze di tradizione e cultura – ma alle persone. In altre
parole, verrà stabilito quale sarà il «genitore collocatario»: uno solo,
contro il diritto alla bigenitorialità, riconosciuto al minore dalla
legge n. 54 del 2006 quale diritto indisponibile, che gli discende
dall’articolo 30 della Costituzione;
il decreto legislativo in parola si propone esplicitamente di rispettare
il diritto del minore a un rapporto simmetrico con i genitori, operando
«nel pieno rispetto della bigenitorialità» e pertanto l’obbligo per i
genitori a indicare un unico luogo, ovvero genitore, presso il quale il
figlio sia radicato affettivamente e concretamente, non corrisponde alla
volontà del legislatore;
occorre, a parere degli interroganti, prendere atto di una insuperabile
incompatibilità del concetto di residenza abituale – ove gli si voglia
dare il senso previsto dalla Convenzione dell’Aja, ovvero quello
indicato dalla suprema corte (3680/2010) – con l’articolo 30 della
Costituzione, per la incoerenza con il rilievo sistematico centrale che
nell’ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato su detta norma
costituzionale, assume l’esigenza di protezione dell’interesse dei
minori, e a maggior ragione dei loro diritti, così come descritti dalla
legge n. 54 del 2006;
si rileva come la possibilità per il giudice di valutare se l’ascolto
del minore è utile o «manifestamente superfluo», di cui agli articoli
336-bis e 337-octies del citato decreto legislativo, appare contraria
all’interesse del minore, nonché al suo diritto ad essere sentito in
ogni questione che lo riguardi, sancito da convenzioni internazionali
come, in particolare, la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti
di fanciulli, ratificata dall’Italia con legge 20 marzo 2003 n. 77;
sotto l’aspetto sostanziale, pur riconoscendo la bontà dello scopo di
evitare al minore una situazione di disagio psicologico, si nota infatti
che il giudice non ha elementi per giudicare che l’ascolto sia
superfluo prima di averlo effettuato, né può giovare quale efficace
filtro la condizione dell’accordo raggiunto dai suoi genitori, ben
potendosi ipotizzare situazioni di conflitto di interessi con essi;
ricordato a tal proposito che il ruolo di «parte del processo» di
separazione in senso sostanziale più volte riconosciuta ai figli, anche
minori (recentissimamente, gennaio 2014, una ordinanza della sezione IX
del TO Milano, est. Buffone), si rammenta, inoltre, la pronuncia della
Corte Cost. n. 1 del 16 gennaio 2002, la quale, con riferimento
all’articolo 37, comma 3, della legge 26 aprile 2001, n. 149, così si
esprimeva: «Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e
il minore sono assistiti da un difensore, anche a spese dello Stato nei
casi previsti dalla legge». Da cui si deduce come essa presupponga che
entrambi i genitori (ed il minore) siano «parti» del procedimento di cui
all’articolo 336 del codice civile, e in quanto «parti» abbiano diritto
di avere notizia del procedimento e di parteciparvi; le soluzioni
adottate a livello internazionale per disciplinare tale diritto lo
configurano diversamente, senza lederne la sostanza, laddove, ad
esempio, il codice civile francese all’articolo 3881 afferma
l’obbligatorietà dell’ascolto nel caso in cui il minore ne faccia
domanda, mentre nel caso in cui il minore rifiuti di essere sentito il
giudice potrà valutare la bontà delle sue ragioni
–: se non ritenga opportuno provvedere
ad assumere iniziative per sanare le suddette disfunzioni affermando,
quale interpretazione autentica del decreto legislativo n. 154 del 2013,
che «residenza abituale», per i motivi sopra esposti, ha ovunque nel
codice civile – e comunque sicuramente agli articoli 316, 317-bis e
337-ter – il mero significato di residenza anagrafica, assumendo
iniziative per escludere esplicitamente dalla possibilità che possano
avere rilievo in sede giudiziaria, in relazione ai profili descritti
nelle premesse, i concetti di «collocazione privilegiata»,
«domiciliazione prevalente» e conseguentemente dei concetti di «genitore
convivente» o «collocatario», o «domiciliatario» e simili;
se non ritenga opportuno superare, o evitare, quella che gli
interroganti giudicano una violazione di diritto, assumendo iniziative
per fornire una interpretazione autentica del decreto legislativo che
affermi che la facoltà del giudice di non ascoltare il minore non abbia
effetto nel caso in cui il minore faccia richiesta di essere sentito.
(5-01943)