L’azienda milanese dei trasporti citata era stata citata in giudizio da un operaio che fra il 22 e il 24 ottobre del 2012 non aveva potuto presentarsi al lavoro per assistere il proprio bambino ammalato
 

di LUCIA LANDONI

Atm discrimina i padri lavoratori: è la motivazione della condanna emessa nei confronti dell’azienda dei trasporti milanesi dal giudice del lavoro Antonio Lombardi, che ha confermato la sentenza emanata lo scorso luglio in primo grado dalla collega Giulia Dossi. Entrambi i giudici hanno dato ragione a un operaio di Atm che fra il 22 e il 24 ottobre del 2012 non aveva potuto presentarsi al lavoro per assistere il proprio bambino ammalato. L’uomo si era visto detrarre dallo stipendio 253 euro per i tre giorni di assenza e aveva deciso di denunciare l’azienda per discriminazione di genere.

In altre parole, il lavoratore si è sentito danneggiato in quanto dipendente di sesso maschile: il contratto di lavoro collettivo degli autoferrotranvieri prevede per le donne il diritto al congedo retribuito in caso di malattia dei figli di età inferiore ai tre anni, ma per i padri la questione è più complicata. In particolare, il giudice ha ritenuto discriminatorio l’articolo 4 del contratto – e di conseguenza Atm che l’ha applicato – secondo il quale le madri possono usufruire di un totale di dieci giorni di permesso pagato nel corso dei primi tre anni di vita dei loro bambini. Agli uomini, invece, le stesse agevolazioni spettano solo nel caso in cui “la madre rinunci alla fruizione del permesso con apposita nota comunicata sia all’azienda della lavoratrice sia a quella del padre”.

Sostanzialmente, una donna può presentare una dichiarazione di rinuncia al congedo retribuito solo se è una dipendente con lo stesso contratto di lavoro del marito. Quindi se un padre si occupa da solo dei figli, ha una moglie disoccupata o che non viene pagata secondo il contratto degli autoferrotranvieri non può assistere il proprio bambino senza vedersi ridurre lo stipendio. Insomma – come si legge nel ricorso presentato dall’operaio di Atm – “a parità di ogni altra condizione, il genitore di un sesso è trattato meno favorevolmente del genitore dell’altro sesso”.

Già nel processo di primo grado l’azienda si era difesa sostenendo che il contratto non volesse penalizzare gli uomini, ma piuttosto proteggere i diritti delle donne, aiutandole a rimanere nel mondo del lavoro dopo la maternità, e quelli dei bambini, solitamente più legati alla madre in tenera età. I giudici hanno però ritenuto che “una simile giustificazione appare incompatibile con il principio di parità di trattamento fra uomini e donne” e hanno ordinato all’Atm di “porre fine alla pratica discriminatoria,

riconoscendo i permessi retribuiti per malattia del figlio di età inferiore ai tre anni ai lavoratori padri alle stesse condizioni cui essi sono attribuiti alle lavoratrici madri, ossia indipendentemente dalla condizione professionale della madre e dalla sua rinuncia al beneficio”.

Ovviamente come redazione non possiamo che essere d’accordo col giudice del lavoro, la discriminazione compiuta sulla figura paterna era ed è comunque risaputa nel nostro paese, in questo ambito, basti vedere l’aspetto di succedaneità rispetto al ruolo materno per cui il papà scatta solo se la mamma rinuncia!!!. Va ricordato che solo nell’europa del nord, l’indennità in questi casi viene riconosciuta uniformamente sia in termini di tempi che di rimborsi per  mamme e papà, mentre da noi, il congedo parentale è uno di quegli aspetti certamente non all’insegna delle pari opportunità ne tantomeno della non discriminazione di genere.
La doverosa riflessione  prende spunto da inique regole, di che colore è la discriminazione? e soprattutto: – CHI DISCRIMINA CHI?
La redazione