15 Dicembre 2014 – di Roberto Castelli
Desideriamo riportare l’articolo di tre giorni fa scritto da Riccardo Ghezzi, perchè come lui riteniamo doverosa ogni azione di trasparenza informativa, comunque e sempre. Poteva benissimo intitolare l’articolo in vari modi: le verità scomode, quello che non si dice sui centri antiviolenza, il mondo sommerso dei Centri e il mancato aiuto concreto alle donne, ma lui ha scelto un altro titolo che tratta il tema della testimonianza personale come preminente:
Marzia Schenetti, vittima di stalking: “Vi racconto il business delle associazioni anti-violenza sulle donne”
Un racconto che focalizzando la mission dei centri antiviolenza apre finestre e sguardi collegati di sicuro interesse per tutte le persone ed i cittadini che vogliono sapere come funziona la cosa pubblica.

Ammettere poi che noi lo già lo sapevamo, non ha molto valore, perchè le nostre convinzione provengono da deduzioni e analisi, da dei “due più due” riscontrabaili nelle esperienze quotidiane, da ciò che osserviamo e il disagio che proviamo come genitori separati e privati dei figli spesso proprio dopo false denuncie e analoghi escamotage funzionali che ci mettono funzionalmente in cattiva luce creando la premessa per definire i Centri antiviolenza i luoghi dove finiscono tutte le ex mogli e compagne. Oggi, la posizione degli uomini separati (parlo da uomo perchè lo sono ed insieme ho anche beneficiato del boicottaggio del ruolo di padre, e nella consapevolezza di interpretare anche il pensiero di molte madri nostre associate), ci impone moltissime riflessioni. E’ determinante capire l’iniquità da dove tragga spunto, e si  impone il dovere di comprendere i meccanismi delle leggi dell’ ideologia politica e sociale, aver chiari i meccanismi ed i perchè, analizzandoli, discutendono e osservandoli da più parti, cose per nulla facile da mettere a nudo, ma è doveroso ricercare, per tutti coloro che credono che gli avvenimenti e le scelte istituzionali prendano spunto da “buone idee e buoni propositi o talvolta da ideologie volte a creare diritti e differenze evidenti” ma anche come venga speso tanto denaro pubblico in aiuti sociali evidentemente anche criticabili come dimostrato.
Ringraziamo quindi Riccardo Ghezzi e Marzia Schenetti che siamo certi ci perdoneranno questo “rimbalzo” informativo che permette di allargare e diffondere la lettura ad un pubblico più ampio e da questo momento anche più consapevole.

il testo originale dell’articolo proviene da questo link:

e recita così:

Il nostro articolo sullo spettacolo di Serena Dandini sponsorizzato dalla cooperativa di Buzzi
pare aver scoperchiato il famoso vaso di Pandora. La notizia, anche se
con un paio di giorni di ritardo, è stata ripresa dalle testate
nazionali ed è divenuta oggetto di dibattito. La questione però assume
risvolti di più ampio respiro se si pensa al mondo dell’associazionismo
in senso lato. Quante donne vittime di violenza sono state aiutate
concretamente da queste associazioni storiche che dicono e promettono di
aiutarle?
Una risposta che ci può dare Marzia Schenetti, già autrice
del libro “Il gentiluomo, uno storia di stalking”, autobiografia in cui
racconta la sua spiacevole esperienza personale che l’ha vista vittima
di stalking.

Per sei anni, Marzia Schenetti, artista ed imprenditrice, è stata a
contatto con queste associazioni. Ne ha ricavato un’esperienza non
positiva che ha deciso di mettere nero su bianco in un altro suo libro,
“Le gentildonne”, che uscità a febbraio. Un libro, crediamo, destinato a
far discutere. Incuriosita dal nostro articolo sullo spettacolo di
Serena Dandini, Marzia Schenetti ha deciso di anticiparci qualcosa in
questa intervista esclusiva. 
Marzia Schenetti, ci racconti la sua storia
Inizierei col dire che io ho vissuto sulla mia pelle sia il fatto di
essere vittima di molestie, nel mio caso stalking, sia il fatto di
venire a contatto con il mondo delle associazioni dedicate alle donne
vittime di violenza. Soprattutto l’ambito emiliano lo conosco molto
bene. Sono stata la prima vittima di stalking a raccontare la propria
storia, nel 2011. Ma quando ho avuto a che fare con il cosiddetto
“esercito di salvatrici”, la mia situazione non è certo migliorata.
Che cosa ha riscontrato?
Partiamo da un dato statistico. Le vittime di violenza, in Italia, sono
per il 67% donne italiane, perlopiù di cultura medio-alta e di ceto
medio-alto. Ecco, per costoro non c’è nulla, vivono nell’abbandono
totale. Personalmente, in questi sei anni sono riuscita a consolidare
delle cordate con altre donne che hanno vissuto la mia stessa
esperienza, ma nient’altro di rilevante. In tanti anni di
associazionismo, nessuno per esempio ha mai pensato al reintegro delle
vittime, a un fondo per quelle in stato di necessità. Io avevo
un’impresa artistica, sono stata per 10 anni cantante lirica e per altri
14 imprenditrice dell’artigianato artistico. Nella mia vicenda ho perso
tutto: azienda, casa e lavoro. E, nonostante le enormi difficoltà, ho
cercato in tutti i modi non solo l’aiuto là dove utopicamente pensavo mi
spettasse, ma soprattutto ho fatto affidamento alle mie forze
interiori. E quando mi sono rivolta alle associazioni, mi sono trovata
invece di fronte a scenari inquietanti, anche documenti alla mano. 
Come funziona il mondo dell’associazionismo?
Collaboro con molte piccole realtà associative con cui fortunatamente
condivido le amarezze, le quali, pure loro, sono oppresse da chi ha il
“monopolio” del contrasto alla violenza e, per avere riconoscimenti,
sono obbligate a fare corsi di formazione che in realtà si potrebbero
definire mazzette. Mi spiego meglio: anche se hai uno storico alle
spalle, ed è il caso di donne che da anni collaborano con vittime di
violenza, non viene riconosciuto nessun valore, se non concesso
attraverso i famosi “corsetti”. Che sono a pagamento. E queste sono cose
risapute solo da chi è dentro, perché si guardano bene dal dirle al di
fuori. Inutile specificare che questi corsi sono tenuti dalle solite
associazioni storiche.
Ce ne parli un po’…
Le associazioni storiche, chiamiamole così, sono partite negli anni ’70
sotto il titolo di volontariato, e gli va riconosciuto lo storico e il
grande impegno di quegli anni, ma si sono trasformate a tutti gli
effetti in servizio. Questo è il motivo per il quale molte di queste
hanno abbandonato da anni quei centri, in quanto veniva a mancare il
valore umano delle relazioni. Oggi sono vere e proprie aziende, con
stipendi, professioni e carriere. Molte onlus gestiscono oltre il
milione di euro e bisognerebbe come prima cosa mettere un tetto ben
molto inferiore a questo tipo di associazioni. Il problema infatti, non è
se si sceglie di fare quello come mestiere, ma il fatto che manchi
totalmente la trasparenza.

Anche perché non esistono bilanci pubblici, giusto?
Sono onlus, non hanno l’obbligo di bilanci pubblici. Quindi non si sa
nulla, non si sa come spendano i soldi. E ricevono finanziamenti dalle
istituzioni, ma anche donazioni, in virtù di accordi con le cooperative,
un per cento, otto per mille e così via.

E alle donne vittime di violenza arriva qualcosa?
Nulla, assolutamente nulla. Questi soldi vengono usati per i costi vivi
dell’azienda, ossia stipendi, spostamenti e promozione. E tutto è
organizzato all’interno, come un circolo chiuso. Passa attraverso le
cooperative interne. Uno può essere il migliore avvocato del mondo, ma
non collaborerà mai con queste associazioni se non fa parte del circuito
interno.

Torniamo ai corsi di formazione. Chi deve partecipare?
Tutte le nuove associazioni sono obbligate a farli. Ma nel giro ci sono
persino gli Istituti Scolastici, ospedali, pronto soccorso, forze
dell’ordine. Sono corsi di formazione retribuiti, quindi si tratta di
tanti soldi. Il problema è capire a chi vanno.
Il meccanismo invece e chiaro. In Emilia Romagna, ad esempio, c’è un
protocollo tra le istituzioni, come l’Anci, e il circuito delle
associazioni storiche dell’Emilia Romagna, le uniche accreditate a
tenere i corsi. E a firmare questi protocolli sono gli stessi che poi
fanno la formazione. Guadagnandoci.

E alle donne vittime di violenza nulla, dicevamo.
Nelle associazioni si ama molto usare il termine “accolte”, per
identificare le donne prese in carico. In realtà quel dato, per la
maggiore, si riferisce semplicemente a donne che contattano tali
associazioni, ma che spesso hanno avuto solo un colloquio telefonico e
hanno deciso di non approfondire perché non hanno ricevuto niente da
quella telefonata. Oppure si sono limitate ad un incontro, mettendosi in
tasca una brochure. O ancora hanno avuto un consulto legale, il che
però non significa assistenza legale, semplicemente perché non hanno i
soldi per pagarsi tale avvocato. Tante donne come me sono state lasciate
sole, senza strumenti. La trasparenza che sarebbe da esigere è l’onestà
dei dati, la chiarezza.

Quante donne possono dire di aver salvato?
Mi ha fatto piacere leggere la replica di Serena Dandini su facebook,
proprio ieri, in seguito alle polemiche: sosteneva che spettacoli come
il suo servissero a dare voce alle tante donne vittime di violenza. Ma
noi la voce l’avremmo anche, semplicemente ci viene tappata. E la
Dandini dovrebbe saperlo, considerato che in prima fila ai suoi
spettacoli c’era ben altra gente. Non lo dico per screditare ma io,
insieme ad altre persone, con zero risorse e zero sostegno, ho messo in
scena due spettacoli sulla violenza, e non dello stampo della Dandini,
ma con video, pittrice in scena, danza, e dieci brani inediti cantati da
una vittima di violenza. Troppo dura digerire che le vittime escano
dalla violenza. La macchina s’inceppa. Così, le associazioni e le
istituzioni non mi hanno dato voce, non hanno neppure trovato il tempo e
la voglia di venire a vedere una sola rappresentazione, neppure se
raccoglievo fondi per loro. Mi è stato detto di procedere pure
autonomamente perché la loro associazione ha “altri vincoli”. Bene, oggi
so quali.

Come donne vittime di violenza avete mai chiesto un confronto con le associazioni?
Io e altre donne abbiamo chiesto un tavolo di confronto, già da tre anni
fa. La risposta ci è arrivata per l’appunto dopo tre anni di attesa e
solo grazie alla nostra insistenza. Ed è stata negativa. A me è stato
risposto che io posso continuare a intraprendere tutti i progetti che
voglio, ma al di fuori delle loro associazioni, perché loro hanno altre
esigenze.
In fondo è un meccanismo complesso, che almeno in Italia non riguarda
solo le donne vittime di violenza, ma anche immigrati, rom, senza tetto,
terremotati, minori, disabili. Si riduce tutto a un enorme giro di
soldi e di favori tra le parti.
Insomma, è un volontariato solo sulla carta?
A Bologna c’è la Casa delle donne, e anche qui si parla di volontariato.
La Casa delle donne gode di utenze pagate, immobili gratuiti da parte
del Comune, sono accordi interni che sarebbero anche benvenuti se solo
ci fossero riscontri trasparenti dei giri di affari e se arrivasse
all’esterno un’informazione pulita, alla pari di tanti altri
professionisti.
Serena Dandini ha assicurato che il ricavato del suo spettacolo è andato in beneficenza a queste associazioni…
Fa piacere. Il problema è che serve solo a forgiare queste associazioni,
che poi con quei soldi fanno quello che gli pare. E, come abbiamo
detto, alle donne vittime di violenza non arriva nulla.
Le racconto un aneddoto.
Dica dica…
Tempo fa siamo state invitate in cinque, cinque donne vittime di
violenza, a dare il nostro contributo di testimonianza, ad un evento in
cui c’erano esponenti politici e alcune rappresentanti di associazioni
storiche. Al di là del fatto che non c’è stato neppure un saluto, o
almeno una stretta di mano, tra queste rappresentanti e noi vittime, noi
avremmo dovuto pagare la cena per finanziare queste associazioni. Noi
donne vittime di violenza.
Come ha detto, scusi?
Quello che ha sentito. Al termine dell’evento era organizzata una cena,
allo scopo di finanziare le associazioni. E a noi vittime hanno chiesto
di pagare. Ci siamo allontanate andando a cenare altrove e ovviamente il
giorno dopo ho spiegato le gravi motivazioni, anche perché facevano
parte della serata persino esponenti politici che sono venuti presumo
spesati, oltretutto per dire qualche banalità delle solite e a forgiarsi
del tema della violenza.
Bene. Abbiamo capito che queste associazioni godono di buona stampa. Ci può sfatare qualche altro mito?
Ho fatto richiesta di avere risposta a due semplici domande. Ho chiesto
alle associazioni storiche del mio territorio se in 25 anni abbiano mai
collaborato attivamente con almeno una vittima di violenza, tentando di
reintegrarla all’interno dei loro progetti. Non è mai accaduto. E poi ho
chiesto se all’interno ci sono solo volontari o anche stipendiate.
Ebbene, risultavano ben 25 stipendi.
E’ da tenere presente che anche tutte le attività culturali e
artistiche, che sarebbero di estrema utilità alle vittime, sia come
terapia sia come reintegro, spettano invece a collaboratrici, tra
cooperative e amicizie. La scrittura dei libri esempio. Come me, altre
donne vorrebbero e avrebbero voluto scrivere la loro storia, ma
all’interno di queste associazioni i libri se li scrivono le associate,
se li promuovono e se li presentano, si guardano bene dal dare questa
possibilità a una vittima, tanto è che io per prima mi sono dovuta
arrangiare e ho aiutato personalmente in questi anni altre donne nella
pubblicazione delle loro opere.
La questione è anche politicizzata, non pensa?
Sì. Le cosiddette “salvatrici delle donne” risultano perlopiù di una
determinata schiera politica. E voglio chiarire, lo dico da donna di
sinistra, nata e cresciuta in una sinistra di altri valori. Non sono
una donna di destra. Penso però che i mali sociali non debbano avere
colori politici. Se hanno bandiere politiche significa che ci sono
interessi in ballo, anche economici. Questa non è la formula giusta,
diventa una strumentalizzazione per altri interessi.
Interessi, come già ha detto, economici e politici. Giusto?
Esatto. Economici, perché queste associazioni godono di fondi. E politici, perché ci sono voti di ritorno.
Lei sta scrivendo un libro su questo, il suo quinto libro.
Il mio primo libro, “Il Gentiluomo – una storia di stalking” è
autobiografico, parlo di una storia di molestie vissute da me in prima
persona. Mi è costato parecchio, perché è stato difficile togliersi di
dosso l’etichetta di vittima. A febbraio invece uscirà “Le Gentildonne”,
che parla del mio secondo dramma, quello per l’appunto di venire a
contatto e scoprire il mondo demagogico del “contrasto alla violenza”.
In cosa sbagliano, dal punto di vista strettamente operativo, queste associazioni?
Direi che, oltre a quello che ho già detto, non trattano problematiche
grosse e importanti come la risoluzione dei dissidi e i confronti nelle
vita di coppia. Si limitano a fomentare le denunce, a dare una
superficiale visione dell’uscita dalla violenza, come ci fosse un mondo
pronto ad aspettarci a braccia aperte. Il problema è che le donne
denunciano, ma poi si ritrovano sole, lasciate sole proprio dalle stesse
associazioni. Sole e con la violenza di secondo livello di toccare con
mano un mondo indifferente ai nostri bisogni e sordo alle nostre voci. E
posso azzardare una mia idea: se è vero che i cosiddetti femminicidi
sono aumentati, credo sia anche perché le donne si ritrovano sole anche
dopo nove denunce, nonostante l’aiuto promesso. Il mio libro parlerà
anche di questo. Di sei anni in cui, mio malgrado, sono venuta a
contatto con le realtà più disparate: istituzionali, associative,
personali.