“N.d.R. Sto leggendo di questi tempi il libro di Giovanni Bollea “Genitori, grandi maestri di felicità”. E’ un gran bel libro, anche se per i miei “bisogni” di padre in questo momento è un testo prematuro. Mio figlio ha due anni e sicuramente questo testo è più adatto a dubbi e perplessità di genitori con figli un po’ più grandi (dai quattro anni mi permetterei di dire). Vi faccio leggere la prefazione, cosi che possiate capire lo stile di questo psichiatra. Non spaventatevi dalla sua professione, il testo e quello che dice sono molto più semplici e comprensibili”

A suo tempo dissi che le madri non sbagliano mai, ma non dissi che le madri hanno sempre ragione. Qual è l’origine di un pensiero soltanto apparentemente così paradossale?

Patologie a parte, nella mia esperienza ho incontrato figli che hanno dimenticato gli errori delle madri e ricordato indelebilmente quelli dei padri: per questo si può dire che “le madri non sbagliano mai”. E i padri invece sbagliano? Se sbagliano, comunque i loro errori vengono ricordati, soprattutto dai figli maschi. Le ultime ricerche ci dicono che il 54% di loro è soddisfatto delle madri, mentre solo il 9% dei padri. Cosa possiamo dedurne? A domande più specifiche i ragazzi rispondono di essere insoddisfatti dei padri che non portano a casa uno stipendio sufficiente rispetto allo standard borghese, o non provvedono ai loro desideri materiali, come lo sport, una macchina nuova, lo stereo, abiti firmati, tecnologie sofisticate o semplicemente un nuovo telefonino.
È evidente a tutti quanto queste confessioni dimostrino un vero e proprio fallimento culturale, concepito in una profonda mancanza di valori alternativi. Eppure, oggi, i padri sono molto più vicini di una volta ai loro figli; basti notare la quantità di carrozzine e passeggini da loro portati, a volte con un atteggiamento più tenero e attento di quello delle madri; e poi l’interessamento per la scuola, da me tanto auspicato, che oggi è aumentato; e così il dialogo, ancora insufficiente ma più aperto e mirato. Nonostante tutto ciò, nella mente dei figli l’identikit del padre è modellato su effigi, icone e ritratti degli eroi vincenti in televisione, negli spot e nei film d’azione: feticci e simulacri nei quali vogliono a tutti i costi individuare i propri padri. È tuttavia molto interessante scoprire che pochissimi vorrebbero cambiare famiglia o averne una diversa. È sconcertante vedere che la madre non è stata ancora identificata in una figura “produttiva” sul piano materiale, al di là dello stipendio che riesce a portare a casa: l’effigie materna resta ancora una sorta di icona. Ma per lo meno crudele è il cinismo riservato al padre, il quale naturalmente cercherà di trovare facili scappatoie in una fuga in avanti per liberarsi dal sentimento di inadeguatezza che lo deprime quotidianamente.
Per i ragazzi riconoscere di non essere soddisfatti di quello che ricevono dal padre è meglio del rinunciare all’apparire, scimmiottando una realtà che li fa sentire “forti” e che, al contrario, li rende sempre più deboli. La visione costantemente ripetuta del solito modello consumistico alza uno steccato, costruito giorno per giorno, paletto dopo paletto, intorno all’immagine del padre, il quale, alla fine, si troverà davvero di fronte una barricata. Dato poi che gli uomini non trovano mai quello che cercano, bensì quello che creano, rendiamoci conto della pericolosità di questo spostamento di valori. Se non rendiamo i ragazzi consapevoli della loro identità e delle loro reali possibilità, essi non riusciranno mai a immaginarsi forti senza ricchezza, firme e automobili costose.
Il padre deve perciò avere un rapporto di empatia con il figlio soprattutto dai dodici-tredici anni fino ai venti. Dai diciassette ai venti è importantissimo che egli ne comprenda l’esperienza affinché il figlio si ritenga da lui appoggiato. I figli devono poter dire come si sentono; e devono fidarsi, in modo che, nel momento in cui esploderà il conflitto, ci sia un terreno di confronto comune a disposizione per risolvere insieme il problema. È così che si può arrivare a percorrere la strada che li condurrà a desiderare di ricevere e ascoltare i consigli.
Non si arriverebbe a tanto cinismo se il padre riuscisse a riconoscere molto prima le emozioni del bambino, creando così un’occasione di intimità. Potendo capire dall’interno quelle emozioni comincerà, poi, a porre dei limiti ai desideri del figlio e a poggiare sull’altro piatto della bilancia i valori fondamentali che stanno nelle sue qualità morali e intellettive, strumenti non valutabili in denaro, ma essenziali per affrontare la vita e capaci di renderlo più felice, con un’esistenza migliore. Insieme a valori come l’amore, l’aiuto, la solidarietà.
Bisogna evitare che diventi emotivamente impedito perché turbato e preoccupato da discussioni e conflitti che, troppo spesso, esplodono in famiglia per motivi economici; conflitti nei quali il padre appaia sminuito da richieste eccessive e sproporzionate al suo guadagno. E bisogna iniziarlo fin da piccolissimo al confronto con chi vive una vita fatta soltanto di povertà e dolore: ciò non lo spaventerà, anzi lo renderà più consapevole di tutto il positivo che c’è anche soltanto in una delle sue giornate “felici”, costruite sull’unione delle energie di padre e madre. Prospettandogli la possibilità di rendere felici molti altri bambini: bastano il suo pensiero, i suoi piccoli risparmi e la condivisione delle sue emozioni.
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fonte: “genitori grandi maestri di felicità” di Giovanni Bellea