[di Lucio Babolin *] Si può accettare che il sistema di tutela sociale delle cittadine e dei cittadini italiani possa essere disarticolato, distrutto, abbandonato senza che nessuno senta l’esigenza di alzare la voce, di gridare al pericolo, di denunciare l’ingiustizia che si sta perpetrando in Italia a danno innanzitutto di chi già è più in difficoltà e affaticato?

L’interrogativo ha interpellato fortemente un gruppo di organizzazioni sociali del nostro paese le quali oramai da anni assistono allo scempio che si va facendo di tutta la rete dei servizi sociali operativi nei territori del nostro paese.

Parliamo della mancata applicazione della legge di riforma dei servizi sociali (la famosa e disattesa 328); dell’approvazione della riforma del titolo quinto della nostra costituzione che ha aperto un conflitto permanente di competente tra Stato e Regioni; della progressiva dismissione di capitoli di bilancio dedicati ad alcuni settori dell’attività sociale particolarmente sensibili come le tossicodipendenze e i minori. La riduzione quantitativa del cosiddetto fondo unico indistinto che lo Stato rigira alle regioni perché paghino i costi dei servizi sociali ha creato una miscela esplosiva che già ha determinato la chiusura di un numero importante di servizi di prossimità, di bassa soglia, di riduzione dei danni.

Il tutto nel compiacente silenzio del nostro Governo che è portatore di una cultura e di una ideologia centrata sulla necessità di togliere allo Stato e quindi ai servizi pubblici la gestione diretta dei servizi sociali per «delegarli» ad un privato che si pensa sempre più come assistenzial-caritatevole, poco professionalizzato e a costi bassissimi: è la filosofia non della tutela dei diritti di cittadinanza, ma degli interventi di ultima istanza. E con il generale consenso anche delle autonomie regionali, che dimostrano, nella sostanza, di condividere l’approccio conservatore motivando l’abbandono prevalentemente con giustificazioni connesse alla progressiva riduzione delle risorse economiche disponibili, ma evidenziando nei fatti il totale disinteresse per politiche centrate sui diritti di cittadinanza. Altrimenti non si capirebbe perché anche regioni governate dal centro-sinistra non decidano di porre rimedio in proprio a questo degrado progressivo che ora rischia di interessare e intaccare i bisogni e l’esigenza di benessere di coloro che si trovano non nella fascia della povertà assoluta, ma in quella della cosiddetta povertà relativa.

D’altro canto, anche fasce sempre più consistenti di organizzazioni della cosiddetta società civile sono fortemente preoccupate che una presa di posizione forte e determinata, che denunci e rivendichi, possa mettere i discussione la loro sopravvivenza perché soggette al ricatto della dipendenza economica dal finanziamento pubblico. Oppure gravano già in grave difficoltà per il ritardo oramai di uno o due anni nel pagamento dei corrispettivi per i servizi prestati e meditano sulla possibile cessazione di attività. O ancora, fatto ben più grave, si sono illuse che un atteggiamento più cauto nei confronti del manovratore politico possa permettere loro un galleggiamento meno doloroso possibile. Una tale scelta comporta però anche, volenti o nolenti, l’accettazione del modello culturale dominante se non addirittura la sua sottoscrizione e approvazione.
Per fortuna non tutti ci stanno, ed è per questo che un fronte importante di organizzazioni ha deciso di mobilitarsi dando voce al dolore di molti e gridando il loro no a questa deriva che sembra apparentemente inarrestabile costituendosi in un cartello-movimento di organizzazioni sociali che hanno programmato una serie di iniziative di protesta e di mobilitazione civile.

Il primo tassello di questa apertura di conflitto sociale è la stesura di un «Manifesto pro welfare». Il titolo è già di per se indicativo dell’approccio che si vuole dare alla campagna di mobilitazione perché fa esplicito riferimento al benessere come diritto di tutti e stigmatizza la disuguaglianza come ingiustizia rifacendosi alla nostra Carta costituzionale e alla dichiarazione universale dei diritti umani. E già il manifesto traccia alcune direzioni di marcia per una riforma positiva del welfare italiano richiamando i settori principali che richiedono una rivisitazione: il sistema dei servizi territoriali, il sistema di finanziamento del welfare, il libero accesso alla salute e alla formazione.

La casa, il sistema penale, i minori e le tossicodipendenze rappresentano per i promotori alcuni ambiti privilegiati di intervento necessario. Il manifesto sarà integrato e completato da un documento di proposta articolato sui singoli ambiti e settori di attività del welfare del nostro paese e vorrebbe diventare la base per un confronto di merito con i livelli istituzionali nazionali e regionali. L’obiettivo è convergere, in autunno, in una giornata nazionale di mobilitazione e protesta di tutti coloro che hanno a cuore l’esigenza di benessere per tutti, l’uguaglianza delle opportunità, la giustizia sociale, il diritto ai diritti. I promotori (Fish, Arci, Cnca, Antigone, Lunaria) alle quali si sono già aggiunte Cipsi, Emmaus Italia, SCS/Cnos, Jesuit social network, Forum droghe, Eurocare, Arciragazzi, Erit, Saman e Città visibile sono impegnati a predisporre i documenti di proposta entro la fine del prossimo mese di settembre, mentre in questi mesi estivi continuerà l’attività di sensibilizzazione sul manifesto sia all’interno delle proprie organizzazioni che nei territori nei quali si trovano ad operare.

Già il gruppo di lavoro degli assessori regionali al sociale ha dato la disponibilità ad un incontro e lo stesso sta avvenendo con l’Associazione dei Comuni Italiani. «Oggi – affermano i promotori – lo Stato sociale è messo in discussione, c’è il rischio fondato che una sempre maggiore quantità di bambini e bambine, giovani, uomini e donne, anziani siano privati dei servizi essenziali (difesa della salute, istruzione, casa, lavoro, pensione) e si vedano cadere inesorabilmente nel baratro della povertà e nell’abbandono da parte delle istituzioni e della comunità di appartenenza».

La causa dell’allargarsi progressivo della quantità di persone povere è da ricercare non solo nella situazione di crisi globale che stiamo vivendo, ma anche nell’affermarsi negli ultimi decenni della teoria del liberismo economico, della globalizzazione selvaggia e incontrollata, delle speculazioni finanziarie, nella decisione consapevole della politica di abbandonare a sé stessi i più deboli per curare soprattutto gli interessi dei già ricchi che, anche in periodo di crisi, continuano ad arricchirsi sempre di più a danno della stragrande maggioranza dei cittadini del nostro paese.

La stessa azione volontaria, in questo scenario, rischia di essere schiacciata in ruoli sempre più assistenziali e caritatevoli, oltre che sostitutivi dello Stato e delle altre organizzazioni del terzo settore con il pretesto della sua forte connotazione etica, ma nei fatti vittima di una sempre maggiore compressione dei costi. L’aumento delle diseguaglianze sociali ed economiche non è più tollerabile anche perché è spesso causa di violenza tra le persone e prefigura il rischio di conflitti intergenerazionali, di genere, di censo. Noi gridiamo a gran voce il nostro sdegno per questa ingiustizia e diciamo che non possiamo più accettare tale situazione.

* Presidente nazionale CNCA