E’ questo il principio che si ricava da una recente pronuncia del tribunale di Roma: l’assenza del padre dalla vita dei figli va considerata irrilevante se vi è una donna adulta (la madre) che dall’esercizio monopolistico della genitorialità derivi un’utilità economica, come avviene nel caso del falso-affido-condiviso applicato in Italia (l’invenzione giurisprudenziale della “domiciliazione prevalente” o “collocazione prevalente” del minore, plebiscitariamente a favore della madre, è concepita – ad onta del pretestuosamente asserito “superiore interesse dei minori” – per consentire a quest’ultima di locupletare l’assegnazione della casa familiare e l’assegno mensile).
La stessa assenza, invece, va considerata rilevantissima e perniciosissima se – in mancanza della madre vi siano altre donne adulte (le figlie) che da quell’assenza possano lucrare – sempre a spese dell’uomo – un ingentissimo risarcimento.
Ciò significa che, dal 2006 (anno di entrata in vigore dell’affido condiviso) la magistratura, applicando plebiscitariamente l’abusiva invenzione della “collocazione prevalente” – la quale costringe all’assenza i padri che reclamerebbero la presenza nella vita dei figli – sta consapevolmente cagionando un danno esistenziale, nella vita dei figli, che, nel caso di specie, è stato quantificato in 30mila euro pro-capite; il che significa che gli stessi magistrati, se non fossero protetti dallo scudo della legge Vassalli – grazie alla quale non rispondono del loro operato, se non in caso di dolo grave – un domani potrebbero essere chiamati, da quei figli che oggi rendono “orfani di padri vivi”, a risarcire loro un danno esistenziale collettivo di proporzioni incalcolabili.
Il figlio non riconosciuto dal padre ha diritto a essere risarcito del danno morale. Infatti l’assenza di un genitore può generare ripercussioni negative nella vita del ragazzo, oltre a scompensi affettivi. Il giudice può liquidarlo in via equitativa dal momento che si tratta di un diritto costituzionalmente garantito.
A questa importante conclusione è giunto il Tribunale di Roma che, nell’ambito di un giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità, ha liquidato a due sorelle, mai riconosciute spontaneamente dal padre il risarcimento del danno morale (30 mila euro per ciascuna).
In particolare ad avviso del Collegio, il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. – anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni
che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale, che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità
che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi. Ora, se nessun dubbio sussiste sulla tutela accordata in ambito costituzionale aifigli naturali, ai quali è garantita ogni tutela giuridica e sociale, occorre verificare nel singolo caso se vi sia la prova del pregiudizio sofferto.
Infatti, il danno, anche in caso sia vulnerato in modo grave un diritto della persona, non si sottrae alla regola generale di cui all’art.2697 c.c., per cui deve essere sempre allegato e provato, non potendo considerasi “in re ipsa” e dovendo essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento.
Trattandosi di pregiudizi inerenti l’esistenza della persona, particolare rilievo assume in questa sede la prova per presunzioni, fermo restando però l’onere del danneggiato di allegare e provare gli elementi di fatto da cui desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio; una volta offerta la prova del fatto che viene posto alla base della presunzione, spetterà alla controparte fornire la prova contraria, in assenza della quale dovrà ritenersi dimostrata l’esistenza del danno facendo ricorso, a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
In questo caso, dicono i giudici, le figlie asseriscono di aver subito, quale conseguenza della sottrazione da parte di quello che è risultato essere il proprio padre naturale all’assolvimento degli obblighi e dei diritti nei loro confronti, “profonde crisi esistenziali ed angoscianti turbamenti psicologici”, di gran lunga aumentati dopo la morte della loro madre, quando avevano 22 anni, e poco dopo della nonna, quando rimasero senza punti di riferimento e finirono per entrare nel tunnel della droga.
Lamentano, dunque, di un danno strettamente morale, originato dalla sofferenza patita per la privazione della figura genitoriale.
Dunque, secondo il comune sentire, l’assenza di un genitore nella vita del figlio genera indubbiamente molteplici ripercussioni negative nella vita di quest’ultimo, tra cui scompensi affettivi e la privazione di sostegno psicologico e di guida, oltre ad inevitabili ricadute nella sfera della vita di relazione.
Il che è esattamente ciò che il giudice deve disconoscere qualora i figli siano in età minore e la loro sofferenza morale sia funzionale al vantaggio economico della madre.
Fonte: www.cassazione.net

Analisi a cura di Fabio Nestola (Federazione Nazionale Bigenitorialità):
Come si può definire la sentenza oggetto dell’articolo?
…negazione dei diritti costituzionali?..
…vilipendio del concetto stesso di Giustizia, oltre che di logica e buonsenso?..
…incoerenza, ipocrisia, malafede?..
O semplicemente incapacità valutativa?
Se da un lato appare inviolabile il principio secondo il quale i figli debbano godere di entrambe le figure genitoriali (nella fattispecie della figura paterna), dall’altro è impossibile non notare come tale principio venga costantemente disatteso.
Non so dove, ma da qualche parte deve esistere un limite alla distruzione della certezza del diritto.
Dall’analisi comparata con migliaia di provvedimenti, emerge in maniera incontestabile come la negazione di una o entrambe le figure genitoriali sia illecita e meritevole di risarcimento se messa in atto dalle parti, mentre diventi lecita quando è imposta da un magistrato, magari su indicazione dei Servizi Sociali.
Nelle separazioni è prassi consolidata; una regola non scritta ma nota a tutti, dal blasonato Principe del Foro fino al più giovane praticante: un genitore separato che desideri occuparsi dei propri figli può farlo solo nella misura in cui l’altro genitore lo consenta.
Esattamente ciò che il legislatore intendeva evitare.
Avviene attraverso la forzatura sistematica della norma da parte della magistratura, che restaura il “genitore prevalente” con la creazione del “collocamento”.
Prima della riforma il genitore prevalente era “affidatario”, dopo il 2006 è stato trasformato in “collocatario” o “prevalentemente residente”; una modifica meramente lessicale: cambia la forma ma la sostanza rimane invariata.
Deve continuare ad esserci un genitore unico quale concreto punto di riferimento per i figli: l’altro viene relegato in una posizione marginale, con compiti di sostentamento economico ed un mortificante “diritto di visita”.
Alcune frange della magistratura non hanno accettato la ratio della riforma e non riescono ad abbandonare il solco dell’affido esclusivo.
(Dr. Bruno Ferraro, Pres. Tribunale di Tivoli, 29 settembre 2011)
Proprio in merito al “diritto di visita” emergono le macroscopiche violazioni della norma.
Il comitato Stati Generali della Giustizia Familiare ha in archivio migliaia di provvedimenti – una piccola parte dei quali sono anche oggetto di una class-action Adiantum presso TAR e CEDU – nei quali le misure standard di frequentazione figurano come “affido condiviso” solo sulla carta, traducendosi nei fatti in un’innegabile violazione del diritto dei minori attraverso una deminutio del ruolo di uno dei genitori.
Si allega quale esempio la trascrizione di un decreto del TdM di Roma (ovviamente abbiamo in archivio l’originale).
Esempio concreto di come il TdM di Roma applichi l’affido condiviso:
TRIBUNALE PER I MINORENNI DI ROMA
Il Tribunale, riunito in Camera di Consiglio, con la presenza di:
Dr .XXXXX, Presidente , Dr. XXXXX Giudice
Dr. XXXXX, Giudice Onorario
Dr. XXXXX, Giudice Onorario
letti gli atti del procedimento per regolazione della potestà genitoriale sulla minore XXXXX
OSSERVA: ricorre la madre del minore in epigrafe, per chiedere una regolazione dell’esercizio della potestà sulla figlia. Ritiene il tribunale che a seguito della istruttoria effettuata sia emersa la sostanziale idoneità di ambedue i genitori ad esercitare la potestà per cui la regolazione della stessa dovrà prendere in considerazione soprattutto l’interesse della minore ad avere rapporti equilibrati con entrambi i genitori, in maniera da mantenere le figure genitoriali anche dopo la separazione delle stesse. Le parti dovranno rispettarsi reciprocamente e consentire a ciascuno dei genitori di svolgere il proprio ruolo, senza indebite sostituzioni o tentativi di limitazione. Tanto premesso va disposto che l’esercizio della potestà sia congiunto tra i genitori, mantenendo allo stato la collocazione della minore presso la madre, dove è attualmente il centro degli interessi affettivi e relazionali della bambina e prevedendo un rapporto del padre con la figlia, il più ampio possibile. Il padre dovrà provvedere in maniera idonea al mantenimento della figlia, con una somma che si valuta congrua in euro 750,00 mensili, oltre alle spese straordinarie per il 50%. La limitata frequentazione tra padre e figlia intervenuta anche per gli ostacoli e le diffidenze della madre della bambina consigliano di disporre una gradualità nel rapporto da ampliare con il tempo.
P.Q.M.
Definitivamente pronunciando sul ricorso per regolazione della potestà genitoriale sulla minore XXXXX dispone l’affidamento condiviso della minore in epigrafe, che resterà collocata presso la madre XXXXX.
Il padre potrà avere con sé la figlia, a fine settimana alternati, dalle ore 10 del Sabato alle ore 19 della Domenica con prelievo e riaccompagnamento presso la casa della madre. Potrà averla con se per un pomeriggio a settimana (il Mercoledì salvo diverso accordo tra i genitori) dalle ore 16 alle ore 20.00, con prelievo e riaccompagnamento a casa della madre. Potrà averla con se, durante le vacanze natalizie, per 7 gg. ad anni alterni, dal 23 al 30 Dicembre o dal 31 Dicembre al 6 Gennaio, per 5 gg, durante il periodo pasquale dal Giovedì prima al Martedì dopo Pasqua; durante l’estate: dal 15 Luglio al 14 Agosto o dal 15 Agosto al 15 Settembre, ad anni alterni, salvo diverso accordo tra i genitori. Le decisioni importanti per la vita della bambina saranno prese congiuntamente dai genitori, ciascun genitore prenderà da solo le decisioni concernenti l’ordinaria amministrazione, quando avrà con se la figlia. Per il periodo fino al 30 settembre 2010 il padre potrà avere con sè la figlia per l’intera giornata del Sabato o della Domenica, a settimane alterne, dalle ore 10.00 alle ore 19, con prelievo e riaccompagnamento alla casa materna. Per le prossime vacanze estive potrà avere con sé la figlia per una settimana, dal 7 al 13 Agosto (salvo diverso accordo tra i genitori). Il padre parteciperà al mantenimento della figlia, versando mensilmente alla madre della stessa la somma di euro 750,00, oltre alle spese straordinarie nella misura del 50%. Decreto immediatamente efficace in relazione all’urgenza di provvedere legata alla materia del procedimento.
Deciso in Roma il 12/01/10
Si comunichi per intero al P.M. ed ai genitori della minore
Due domeniche al mese, 4 ore in un solo pomeriggio infrasettimanale, 7 gg a Natale, 5 gg a Pasqua
Periodo estivo, con la bambina libera dagli obblighi scolastici: 7 gg ad agosto, sabato o domenica dalle 10 alle 19 senza pernottamento.
Vostro Onore, che dire… troppa grazia!..
Le misure di cui sopra nascono dall’esigenza (testuale) di prevedere un rapporto padre-figlia “il più ampio possibile”.
Caspita, il più ampio rapporto che riesce ad immaginare il tribunale è fatta di 16 ore al mese nei pomeriggi (4+4+4+4) e 66 ore al mese nei weekend (33+33), in tutto 82 ore/mese.
Sommando le ore, meno di tre giorni e mezzo in un mese.
Se non dovesse essere “il più ampio possibile”, un paio di giorni andrebbero bene?
Sentenze e decreti continuano ad essere declinati sulle vari forme del “limitare”: un genitore deve essere plenipotenziario, l’altro viene relegato in un ruolo assolutamente marginale nel processo di crescita dei figli.
Non certo la divisione aritmetica di 15 giorni con ciascun genitore, ma è troppo anche pensare a 10/12 giorni al mese: meglio limitare a tre bei giorni abbondanti, densi di significato.
Già, perché va ricordato che la tesi preferita da chi si accanisce ad ostacolare i rapporti tra genitori e figli è il tormentone “non conta la quantità ma la qualità”.
Curioso, ma non ha mai trovato accoglimento la controproposta paterna “allora date a me 27 giorni del tutto insignificanti, e lasciate all’altra 3 giorni densi di ottima qualità”.
Da notare che nel periodo estivo, quando la bimba è libera dagli obblighi scolastici e dai vincoli di orario che ne derivano, sparisce il pernotto.
Il padre può vederla per 9 ore (wow!) il sabato o la domenica, riaccompagnandola entro le 19.
Quindi in estate mai un pernotto o una cena insieme, anche se la chiusura delle scuole lascerebbe oggettivamente maggiore libertà.
Che diamine, questo padre invadente mica pretenderà di sedersi a tavola con la sua bambina!
Limitare, limitare, la parola d’ordine è sempre la stessa.
Limitare le telefonate, le occasioni di incontro, gli orari.
Trascorrono una settimana di vacanze insieme? beh, allora è doveroso come minimo togliere il pernotto nei weekend.
Sia chiaro che il genitore prevalente è un altro, il padre rimanga buono e zitto nel suo angoletto ad accontentarsi delle briciole.
Accade sempre, anche nel caso in cui il tribunale abbia riconosciuto espressamente (o finto di farlo?) la necessità di stabilire un rapporto il più ampio possibile.
Cosa è cambiato rispetto all’affido esclusivo?
Nel nostro Paese si è resa necessaria una legge per stabilire che anche il padre è importante nella vita dei figli. Già questo fatto, da solo, la dice lunga sui pregiudizi antipaterni che hanno inquinato i tribunali fino al 2006.
Poi qualcuno si è reso conto che i compiti di cura del padre non sono limitati a versare denaro.
Il legislatore lo ha scritto, il Parlamento ha approvato.
In tribunale ancora non se ne sono accorti.