Il padre non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per raggiungere il figlio collocato
[il che è fuori legge – ndr] presso la madre in un’altra città

Non è legittima la ripartizione delle spese per gli spostamenti che affronta l’ex per stare con il figlio con collocazione prevalente presso la madre. La valutazione complessiva delle risorse reddituali del padre, non circoscritta agli introiti attuali, deve essere estesa a quelli che egli sarebbe in grado di procurarsi impiegando interamente le sue energie lavorative.
Lo ha sancito la Cassazione che, con la sentenza 17189 del 9 ottobre 2012, ha respinto il ricorso contro la decisione della Corte d’appello di Brescia che ha disposto l’affidamento condiviso del figlio naturale a entrambi i genitori, con residenza dalla madre, disciplinando il diritto di visita del padre e ponendogli a carico l’obbligo di corrispondere un assegno mensile di 250 euro per il mantenimento del piccolo, oltre la metà delle spese straordinarie.
La prima sezione civile, in linea con la Corte di merito ha ritenuto equa la somma dell’assegno non solo in base alla capacità di lavoro professionale o casalingo di ciascuno dei genitori – il cui apprezzamento implica anche una valorizzazione delle potenzialità reddituali, indipendentemente dalla situazione contingente – ma anche dalla valutazione complessiva delle somme necessarie per la vita e la crescita del bambino. Infatti, ribadisce la Suprema corte che «la commisurazione di tale contributo non è legata esclusivamente alla quantificazione delle sostanze e del reddito del genitore non convivente, ma anche alla considerazione del minimo essenziale per la vita e la crescita del figlio, da valutarsi in relazione alla sua età e alle condizioni socio-economiche del nucleo familiare.
Il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, ai sensi dell’art. 147 Cc, obbliga infatti i genitori a far fronte a una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale, nonché all’assistenza morale e materiale e all’opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione: tali esigenze costituiscono oggetto dell’art. 155 Cc il quale, nel disporre che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, precisa che, a tal fine, occorre tener conto delle «risorse economiche» di entrambi i genitori e della valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti [*] da ciascuno di essi, in tal modo ricollegandosi al dettato dell’art. 148 che impone di far riferimento, nella quantificazione dell’obbligo contributivo, non solo alle rispettive sostanze, ma anche alla rispettiva capacità di lavoro professionale o casalingo. Quest’ultimo elemento implica, in particolare, una valutazione complessiva delle risorse reddituali del genitore, non circoscritta agli introiti attuali, ma estesa a quelli che egli è in grado di procurarsi impiegando interamente le sue energie lavorative, al fine di assicurare la soddisfazione delle esigenze del figlio, in misura adeguata al pregresso tenore di vita della famiglia e comunque non inferiore a quella imposta dai bisogni primari del minore».
Fonte: www.cassazione.net
[*]: Si noti l’uso beffardo del termine “assunto”, ipocritamente riferito a “ciascun” genitore: se è vero – com’è vero (per le madri) – che un genitore può sfangarsi l’obbligo di contribuire economicamente al mantenimento, apppellandosi alla valenza economica dei compiti domestici e di cura, come possono avvalersi di tale facoltà i padri, la cui convivenza con i figli viene mediamente (ed a bella posta) quantificata nel 15% del tempo totale del figli?..