Bart_phINDAGINE CONOSCITIVA SUI MINORI FUORI FAMIGLIA
Seduta n. 16 di Martedì 5 aprile 2016
PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE : ROSETTA ENZA BLUNDO

– Rosetta Enza Blundo
Mattesini Donella
– Lupo Loredana
– Gabriele Bartolucci
– Walter Correnti

Audizione di Gabriele Bartolucci, Vicepresidente dell’Associazione «Genitori sottratti»
e di Walter Correnti, Presidente dell’Associazione «Un genitore per amico».

GABRIELE BARTOLUCCI,  Buongiorno e grazie dell’opportunità che ci consentite.
Io ho pensato di sviluppare la relazione in pochissime slide per rimanere attinente e vicino ai tempi che ci sono dati a disposizione e per lasciare anche un documento dell’intervento, in maniera tale che possa essere rivisto.
Vorrei dire qualche parola sull’Associazione «Genitori sottratti» e sull’Associazione Rete sociale. L’Associazione «Genitori sottratti» è un organismo di vigilanza che nasce in Emilia-Romagna e che ha sede a Bologna. «Genitori sottratti» nasce nel 2008 come associazione a tutela della bigenitorialità. Nel tempo, la nostra Associazione confluisce nelle attività avviate dall’Associazione Rete sociale che, invece, è una Onlus fondata l’anno scorso, a ridosso della fine dell’anno, e che raccoglie dal punto di vista politico, ma anche dal punto di vista tecnico, una rappresentanza estremamente vasta e variegata, quindi è un’associazione politicamente trasversale, della quale fanno parte giuristi e professionisti del mondo della giurisprudenza e della psicologia. Pertanto, l’Associazione Rete sociale rappresenta un po’ quello che serviva alle associazioni che esistono sul territorio per avere anche un raccordo dal punto di vista tecnico con la realtà politica.
Io vorrei parlare brevissimamente dell’esperienza delle famiglie di origine nell’approccio con la tutela dei minori e poi dedicare un po’ di tempo agli aspetti coi quali appunto i genitori più nel dettaglio si trovano a dover fare i conti, partendo dalle esperienze che abbiamo potuto sperimentare nel corso degli anni in cui abbiamo raccolto testimonianze ed esperienze e documentato casi e vicende.
Partirei subito dal primo punto. Abbiamo preso in considerazione tre casi che sono relativi all’Emilia-Romagna, in particolare al bacino della provincia di Rimini dove abbiamo maggiori informazioni e dettagli.
Nel primo, che si sviluppa a partire dal 1995, c’è una signora, madre di due bambine, che, a seguito di una separazione estremamente conflittuale, si trova a dover fare i conti con un allontanamento su provvedimento del Tribunale per i minorenni dell’epoca.
Come vedete, ho usato i colori giallo, rosso e verde, tipici del semaforo, per spiegare anche visivamente le situazioni di rischio, quelle che passano da rischio a pericolo e quelle che, invece, si risolvono, indicate con il verde.
L’esperienza di questa signora e delle sue due figlie di sei e otto anni è stata terribile, perché questa donna è stata oggetto di un provvedimento di allontanamento dalle due figlie da parte del Tribunale per i minorenni. Inoltre, a seguito di questo provvedimento di allontanamento in cui c’è stato un intervento con l’uso della forza pubblica (sfondamenti di porte e cose varie), la signora ha avuto un mancamento e, siccome era un po’ agitata, le è stato anche inflitto un trattamento sanitario obbligatorio (TSO).
Questa è stata la condizione con la quale si è dovuta confrontare – stiamo parlando del 1995 – perché alla base c’era un problema di relazione tra le figlie della signora e l’ex marito. In pratica, per garantire la continuità dei rapporti tra i familiari il Tribunale ha ben pensato di spostare, tramite i servizi sociali, le bambine in una comunità. Poi, cos’è successo? Sono passati dieci anni e, nel 2005, queste due ragazze, dopo essere state prese in carico dalla tutela per i minori e quant’altro, hanno perso i rapporti con entrambi i genitori, quindi non vedevano più la madre perché dalla madre erano state allontanate e non vedevano più padre perché non c’è stato modo, nel frattempo, di strutturare un rapporto significativo con lui.

    Abbiamo poi, invece, un caso positivo, infatti finisce col verde. Nel 2010, ci sono due bambine, figlie solo della madre perché avute da due genitori differenti, ma, a causa di sospetti maltrattamenti della madre sulle figlie, una delle due viene allontanata e finisce in casa famiglia. Questa storia si sviluppa tra il giugno del 2010 e il luglio del 2010 e, anche in questo caso, il Tribunale per i minorenni interviene con una sospensione della potestà genitoriale, a seguito di un allontanamento disposto ex articolo 403 del Codice civile, quindi d’imperio da parte del servizio sociale.
Per fortuna in questo caso – poi spiegherò anche perché dico «per fortuna» – nel febbraio del 2016 interviene una sentenza definitiva del Tribunale per i minorenni che riporta a casa la bambina che era stata allontanata, ricongiungendo la famiglia; quindi in sostanza questa è una delle vicende a lieto fine tra quelle che abbiamo raccontato.

     Ce n’è un’altra che, sempre nello stesso periodo di tempo, ci porta al caso di Fabrizio. Fabrizio è un signore che ha due figli e che è sposato, quindi la competenza è del Tribunale ordinario e non del Tribunale per i minorenni. La relazione si esaurisce e la madre dei due bambini decide di trasferirsi a Tradate. La famiglia prima risiedeva a Cattolica in provincia di Rimini, ma la signora decide di trasferirsi a 400 chilometri di distanza. In qualche modo, i ragazzi non vedono più il padre. Anche in questo caso viene richiesto l’intervento dei servizi sociali, che organizzano quattro incontri protetti, per garantire al padre la possibilità di incontrare i figli. Questo signore si fa 400 chilometri per andare e 400 per tornare, per quattro volte. Al termine di queste quattro volte, la risposta dolente nei confronti di questo signore è che non vi sono più risorse da destinare agli incontri protetti, quindi non si può più garantire la continuità dei rapporti tra il padre e i suoi figli.
Morale della favola: a febbraio del 2016 questo signore perde completamente i rapporti con i due figli perché, essendosi trasferiti a Tradate, hanno acquisito lì le loro abitudini e quant’altro. Inoltre, la madre dei bambini non ha collaborato alla realizzazione di un progetto comune per garantire la continuità.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una completa distruzione della relazione famigliare preesistente. Succede dunque che – mi dispiace, ma purtroppo i colori forse non sono stati scelti con molta accuratezza – dei casi che abbiamo considerato, è tornato a casa solo uno di questi cinque minori.
Noi abbiamo individuato che gli elementi critici che acuiscono la complessità della relazione, nel momento in cui c’è una crisi all’interno della famiglia, sono la scarsità di risorse economiche, la scarsità di risorse culturali, l’isolamento sociale e, quindi, la difficoltà di interazione con il servizio sociale. Risulta, invece, estremamente favorevole, per avere un’adeguata rappresentanza giuridica, quindi per potersi tutelare in giudizio nella maniera migliore possibile, avere disponibilità economiche.
In effetti, se torniamo un attimo al caso di prima, possiamo dire che, tra questi tre casi, l’unico genitore che sia riuscito a riportarsi a casa i bambini è quello del secondo caso preso in esame. Tuttavia, se noi dovessimo dire che differenza c’era fra questo genitore e tutti gli altri facciamo fatica a qualificarlo, perché non possiamo dire che questo era migliore di tutti gli altri e che gli altri erano peggiori di questo. Semplicemente questo aveva le risorse per poter tutelare, gli altri non le avevano.
Ci siamo trovati in questa situazione a prendere atto di questa condizione: se hai le risorse per poterti tutelare e se hai la capacità di poterti rappresentare di fronte alla giustizia, cioè di fronte alle interfacce di cui la giustizia si avvale nel caso della tutela dei minori, riesci a farlo, diversamente non ci riesci.
Nel momento in cui interviene la tutela dei minori, tra la famiglia naturale e il minore si crea una situazione, come quella che stiamo qui per descrivere. Si crea uno spazio e, all’interno di questo spazio, intervengono tutta una serie di attori.
Il primo di questi è il servizio sociale. Che cosa fa il servizio sociale? Valuta le capacità genitoriali, anche se che cosa siano le capacità genitoriali è difficile dirlo perché è una formula estremamente astratta e sarebbe come definire che cos’è un genitore adeguato, ma adeguato rispetto a che cosa? Si tratta di una formula estremamente vasta e varia e, al suo interno, ci può stare tutto perché è una sorta di letto di procuste nel quale aggiustiamo le persone a seconda del nostro standard e della nostra idea, ma questo non è rappresentativo della realtà.
Che altro fanno i servizi sociali? Redigono relazioni per il Tribunale per i minorenni, gestiscono le relazioni tra il minori e la famiglia di origine, dal momento che c’è un allontanamento, e intervengono, ex articolo 403, autonomamente in caso di necessità, quindi senza attendere l’intervento del giudice. Inoltre, i servizi sociali non dipendono – questo è importante ricordarlo – in maniera diretta e funzionale dall’autorità del Tribunale.
Poi, vediamo la figura del tutore. Il tutore è una figura assolutamente burocratica, cioè non ha un rapporto diretto con le persone per le quali deve prendere in carico la tutela, se non nel caso di un’esperienza unica in Italia che è quella del pubblico tutore della provincia autonoma di Trento. In questo caso, è stato sviluppato un percorso di formazione per persone, quindi per privati cittadini, che hanno deciso di dedicare il loro tempo e le loro risorse per prendersi cura di qualcun altro, e si è cercato di recuperare un po’ l’umanità che manca alla figura burocratica. Un tutore normalmente è una figura nominata che ha sul suo tavolo circa 100-200 tutele, per cui è difficile, ed è normale, che abbia un rapporto diretto con ciascuna di esse; è una figura appunto istituzionale, come ho già detto.
Poi abbiamo il giudice tutelare. Il giudice tutelare è colui che nomina il tutore.
In fondo, abbiamo l’avvocato del minore che è un’ulteriore acquisizione del diritto italiano, a seguito della ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York, e che nei casi previsti rappresenta gli ulteriori interessi dei minori, perché ci potrebbero essere casi in cui l’interesse del minore è diverso da quello dei genitori ed è ancora diverso da quello del servizio sociale, per esempio.
Da ultimo, abbiamo il Tribunale per i minorenni che fa una serie di cose, sulle quali andiamo velocissimi. Si tratta di un’istituzione del 1934 ed è un tribunale speciale, in cui il giudice non è terzo rispetto alle parti, quindi non ammette il contraddittorio. I suoi provvedimenti provvisori sono quelli dei quali leggiamo sui giornali e sulla cronaca e che durano un tempo infinito, infatti non sono appellabili proprio perché sono provvisori e possono durare anni, nei quali i minori e le loro famiglie rimangono nel limbo dell’assenza di una decisione. Inoltre, si tratta di un processo documentale perché non si ascoltano le parti e si leggono le relazioni che arrivano dai servizi sociali. Le sue sentenze non costituiscono giudicato, quindi sono sempre modificabili, fino a che il minore non raggiunge i diciotto anni di età.
Sembrerebbe, vedendo dal di fuori, anche se questa è la percezione che hanno pure i genitori, che tutte quelle figure che abbiamo descritto siano rappresentative di diversi interessi e di diversi scopi e che possano in qualche modo rappresentare in maniera corretta tutti quanti gli attori che fanno parte della presa in carico del minore. Sarebbe ragionevole, quindi, asserire che l’indipendenza tra queste funzioni sia anche la condizione necessaria a perseguire il supremo fine del minore.
Tuttavia, ci troviamo di fronte, nella realtà, ad una situazione differente: il servizio sociale nomina il tutore che, a sua volta, nomina l’avvocato del minore. Questo significa che, se sulla carta abbiamo queste figure tutte distinte, tutte con nomi diversi e con delle funzioni diverse a rappresentare tutte le parti in tutti gli interessi delle parti in campo, in realtà ci troviamo di fronte ad un sostanziale sbilanciamento.
Da una parte, c’è la famiglia naturale che, se va bene, ha un avvocato d’ufficio e, se è fortunatissima e ha le risorse per poterselo permettere, ha un avvocato di parte. Dall’altra, ci sono la tutela dei minori con i servizi sociali, con il tutore e con l’avvocato del minore che rappresentano sostanzialmente la stessa cosa, cioè dicono la stessa cosa ad un ente che prende decisioni e che si chiama Tribunale per i minorenni. Non è propriamente vero che tutti quanti siano correttamente rappresentati perché sta di fatto che non c’è, da parte dell’utenza, da parte del cittadino e da parte della famiglia naturale, la percezione di questa situazione, che si ha tecnicamente, quando ci si addentra nella materia e non prima.
Parlando di numeri che voi conoscete già benissimo, perché ritengo siano stati utilizzati e proposti in tutte le salse, l’analisi più accurata in merito – comunque stiamo parlando di stime – è quella operata dall’Istituto degli innocenti che in Italia è l’ente che si prende carico di fare questo tipo di quantificazioni. Lo ripeto: comunque stiamo parlando di stime.
Cosa significa questo? Lo spiega bene il dottor Moretti dell’Istituto degli innocenti nella prefazione del documento che ha presentato. È necessario parlare di stime perché non tutti gli enti hanno fornito i numeri. Purtroppo non esiste una anagrafica dei minori fuori dalla famiglia, quindi non sappiamo esattamente quanti ce ne sono. Come vedete, se riuscite a leggere in basso, c’è un inciso tratto da una frase di don Oreste Benzi, il fondatore della cooperativa Giovanni XXIII, che nel 1995 diceva che è uno scandalo che nessuno sappia con certezza quanti siano in Italia i minori ricoverati in istituto. Lo diceva nel 1995, cioè 21 anni fa, ma ancora oggi è così perché non è cambiato nulla.
La cosa drammatica è che quel numerino là sotto che conta 39.600 unità circa, secondo il dottor Moretti che ha curato la ricerca, andrebbe moltiplicato per 1,8 e aumentato, dunque, dell’80 per cento perché non tiene per niente conto di tutti quei casi per i quali non è stata data la breve permanenza, per i minori che ci sono autonomamente allontanati dalle strutture dove erano accolti e per tutti quelli per i quali non è stato possibile strutturare un progetto educativo individuale, quindi è un numero molto più grande di quello che abbiamo visto qua e che è già consistente.
Entriamo un attimo nel dettaglio della vicenda dell’Emilia-Romagna, quindi prendiamo il dato regionale che è quello rappresentato qui nella linea evidenziata e lo spacchettiamo, cioè andiamo a vedere quali sono le cause degli allontanamenti.
In cima alla graduatoria, vediamo che c’è quello che avevo detto prima: l’inadeguatezza genitoriale, cioè una formula magica che non vuol dire nulla e che non descrive il problema, ma dice semplicemente che, secondo qualcuno, quel genitore è inadeguato, cioè è un’opinione e non un dato di fatto.
Inoltre, se accorpiamo su base percentuale tutte le cause di allontanamento, ci rendiamo conto che, per la stragrande maggioranza (il 74 per cento), queste sono cause che non hanno niente a che fare con i motivi per cui i minori andrebbero allontanati dalle loro famiglie. Li abbiamo definiti «VAM»: violenza, abbandono e maltrattamento. Questi sono i motivi per i quali è necessario fare un’analisi opportuna e prevedere eventualmente l’allontanamento con delle regole e delle norme che sono già oggetto di discussione e di revisione, e nel merito delle quali non entreremo in questa disamina.
Tuttavia, vi ripeto che il 74 per cento di quei minori che stanno all’interno delle strutture e che sono comunque fuori dalla famiglia, fuori dalla famiglia non ci dovrebbero essere. Sappiamo che la povertà non è una causa di allontanamento né il perdere un lavoro può essere la causa di allontanamento di un minore o non avere una casa adeguata, eppure questo è quello che succede.
Il numero che abbiamo è macroscopico, ma è solo la punta di un iceberg, perché questo è il numero che rappresenta solo i minori fuori dalla famiglia. In realtà, le prese in carico, cioè il numero dei minori che sono attenzionati in qualche modo dai servizi sociali, è molto più grande.
I dati sono tratti da una ricerca estremamente accurata elaborato dalla Risc – Rischio per l’infanzia e soluzioni per contrastarlo di qualche anno fa, che è un tomo di più di 500 pagine che analizza tutta l’Italia e fa dei paragoni con le altre nazioni.
In Emilia-Romagna, si tratta del 7,7 per cento circa della popolazione ed è un numero che sta in media con il Paese, quindi in Italia parliamo di un numero che si aggira intorno a 700.000. Si tratta di un numero per il quale sono aperte delle attenzioni da parte della tutela dei minori che solo – si fa per dire – per 39.600 casi sono rappresentate dall’allontanamento. In realtà, il numero di cui stiamo parlando è molto più grande, quindi va tenuto in considerazione.
Questo comporta una spesa, naturalmente, che per l’Emilia-Romagna è di 371 milioni di euro, cioè il 13 per cento della spesa nazionale che, invece, pesa per 2 miliardi 800 milioni di euro.
L’aspetto interessante è che c’è una discrepanza incredibile in tutt’Italia. L’Istituto degli innocenti è andato al di là e non ha misurato soltanto i numeri, ma ha anche letto altri dati. La cosa interessantissima è: per il bambino o il ragazzo è stato definito un progetto educativo individuale? Si tratta di una domanda che l’Istituto degli innocenti fa a tutti i servizi sociali e a tutte le tutele dei minori d’Italia.
L’Emilia-Romagna, come anche le altre regioni d’Italia, risponde: «sì, nel 76 per cento delle prese in carico, esiste un progetto educativo individuale». Noi cosa abbiamo fatto? Siamo andati a vedere la situazione, cioè abbiamo fatto delle interviste agli utenti. Siamo andati davanti alla ASL di Rimini e nel 2011 abbiamo dedicato cinque giornate a questa attività. Abbiamo intervistato 156 persone che avevano avuto minori in carico presso la tutela dei minori, per il motivo che ho detto prima, quindi non per forza allontanati, ma sotto controllo.
Il 90 per cento di essi non sa che cosa sia il codice deontologico dell’assistente sociale e l’85 per cento non sa che l’assistente sociale è un pubblico ufficiale. Il 78 per cento non ha mai sentito parlare di progetto educativo individuale e chi ne ha sentito parlare, cioè il 22 per cento, non ha mai visto e ricevuto il documento che lo descrive. Il 100 per cento non sa cos’è il SISAM, il Sistema informativo socio-assistenziale, nato a seguito della legge-quadro regionale n. 2 del 2003, che costa 2 milioni di euro ed è un sistema all’interno del quale vengono raccolte informazioni sulle famiglie che hanno prese in carico dalla tutela dei minori.
Inoltre, queste sono informazioni che in qualche modo la tutela dei minori deve acquisire perché, acquisendole, è quasi impossibile che i genitori non sappiano che i loro dati sono contenuti all’interno di questo sistema, eppure non lo sanno. A maggior ragione dovrebbe essere più semplice dire «ti ho dato un documento», cioè ti ho dato il progetto educativo individuale. Tuttavia, questi non l’hanno mai ricevuto e non sanno di che cosa si tratti, quindi c’è un gap di carattere comunicativo: si parlano due lingue diverse.
Il 98 per cento non aveva mai sentito parlare della carta dei servizi sociali che è legge dello Stato, quindi è come dire che non ho mai sentito parlare del fatto che esiste il divieto di fumo nei locali pubblici o che, se voglio guidare il motorino, devo utilizzare il casco o una cosa di questo genere.
L’83 per cento non sa né conosce né ha mai ricevuto copia di un documento abbastanza significativo che è costituito dalle relazioni dei servizi sociali, sulle quali si forma il convincimento del giudice.
Abbiamo fatto di più: abbiamo stimolato delle interrogazioni al Consiglio regionale, tramite il Movimento 5 Stelle – all’epoca c’era il consigliere Giovanni Favia – e tramite anche altre forze politiche, perché le hanno fatte anche la Lega e il PD nei comuni. Alcuni esponenti del PD perlomeno si sono attivati in questa direzione. Alla domanda su – qui, si legge veramente poco perché è scritto piccolo – quanti siano i singoli comuni o quelli associati che in Emilia-Romagna hanno ottemperato alle norme vigenti, adottando e pubblicizzando la carta dei servizi sociali, la risposta della regione Emilia-Romagna è stata: «non lo sappiamo».
Come è scritto qui ed è protocollato e documentato, l’assessore Teresa Marzocchi ha detto: «non so quanti siano i comuni che abbiano adottato la carta dei servizi sociali». Questo è come dire che non l’hanno adottata.
È evidente quello che è scritto qua, cioè, se le famiglie non comprendono il linguaggio delle istituzioni, la mancanza di un linguaggio comune rende impossibile la comunicazione tra loro. È evidente che, se io parlo inglese e voi greco, non riusciamo a comunicare perché non riusciamo a capirci.
Noi, però, siamo entrati a far parte di una organizzazione più grande e abbiamo messo in rete le competenze dell’Associazione «Genitori sottratti», che conosce i casi e che fa in qualche modo da filtro anche tra i casi del territorio e le competenze dell’Associazione Rete sociale che invece è una Onlus della quale fanno parte appunto professionisti, quindi tecnicamente avvocati e psicologi, che si sono resi disponibili ad aiutare e a prendere in carico gratuitamente pro bono delle persone e dei casi che aveva individuato e che naturalmente sono una infinitesima parte di quelli presenti.
Abbiamo cercato di fare anche una proposta, cioè, volendo andare un po’ oltre la denuncia del fatto che c’è un problema, vorremmo dire qualcosa in più, come stiamo cercando di fare tramite questo progetto che si chiama «Angel» e il cui nome deriva da Angela, cioè una ragazza per la quale è stato attivato.
Si tratta di una ragazza madre che vive in provincia di Ancona e che ha vissuto l’esperienza di minore istituzionalizzato perché è stata inserita in casa famiglia all’età di dodici anni. Questa ragazza, oggi, vive l’esperienza di genitore separato dal figlio di appena due anni perché, dopo aver raggiunto la maggiore età, ha avviato una relazione. Da questa relazione che non è andata bene è comunque nato un bambino. Lei ha deciso di tenere il bambino e si è rivolta alle uniche persone che conosceva perché non ha mai più ricostituito una relazionalità al di fuori della casa famiglia, quindi al di fuori di quella condizione un po’ borderline nella quale vivono le persone che hanno sperimentano questa esperienza. Angela si è rivolta ai servizi sociali.
I servizi sociali, dopo due anni di inserimento all’interno di una struttura, non sono stati grado probabilmente di produrre un progetto di reinserimento sociale vero e proprio, per cui, a un certo punto, hanno detto: «tu fuori e il bambino dentro».
Questa mamma vede suo figlio due ore al mese. Si tratta di un bambino di due anni e mezzo e sappiamo che non si allontanano dalla mamma i bambini fino a sei anni di età e che anche le donne che vivono l’esperienza della carcerazione hanno diritto a stare con loro figli. Questa ragazza non ha fatto niente e non ha commesso alcun reato, ma vede suo figlio due ore al mese, per cui non so che tipo di supporto alla sua genitorialità dovrebbe essere questo. In questo caso, tutti hanno fatto il loro lavoro e tutti sono stati bravi, però l’unico che perde alla fine è il minore perché, anche se tutti sono stati bravi, il minore non ha la mamma.
Noi cosa abbiamo fatto? In sinergia appunto con l’Associazione Rete Sociale, abbiamo deciso di cercare di interrompere questo corto circuito, fornendo assistenza legale, sostegno psicologico e progettualità socio-economica, tramite una soluzione, come abbiamo detto, tailor made, cioè fatta su misura, utilizzando e mettendo a disposizione della società le competenze di quella persona.
Angela ha fatto un percorso di studi ed è in grado di lavorare come cuoca, quindi abbiamo cercato di trovarle una collocazione nell’ambito in cui lei ha possibilità di esprimersi e ci siamo riusciti.
Il servizio sociale contestava a questa ragazza una sorta di ignavia, cioè assenza di autonomia economica, dicendole: «non vuoi trovare un lavoro e non diventerai mai autonoma, per cui, se non diventi autonoma, non ti puoi occupare di tuo figlio». Non c’è stato modo in tutti questi anni di renderla autonoma.
Noi in due mesi siamo riusciti a fornire un’adeguata rappresentanza legale, cioè un avvocato di altissimo profilo che segue il suo caso, e uno psicologo consulente tecnico di parte che segue il suo caso presso il Tribunale per i minorenni di Ancona pro bono, quindi questo non è costato niente a nessuno.
Come dicevo, siamo riusciti a trovarle un lavoro ed una prospettiva di lavoro, il che significa che non solo ci sarà uno stipendio, ma ci sarà anche una prospettiva professionale, cioè questa persona potrà camminare con le sue gambe e non sarà più un costo, né lei né suo figlio, per la società, perché il denaro che viene destinato a queste attività viene in qualche modo preso dalla totalità delle disponibilità dello Stato. Non sarà, quindi più, né lei né suo figlio, un derelitto sociale.
Lo dico perché c’è un’altissima ereditarietà statisticamente dimostrabile, cioè le persone che hanno avuto vicende e hanno vissuto esperienze di tutela da minori hanno figli che molto probabilmente avranno di nuovo esperienze con la tutela dei minori, magari per ragioni differenti.
In merito, abbiamo detto, se questo modello funziona e se possiamo adottarlo, perché non possiamo provare a proporlo per tutti i casi che rientrano in questa tipologia? Ci siamo chiesti perché non possiamo fare in modo di spacchettare il rischio per il minore legato alle situazioni di abbandono, di violenza e di maltrattamento che abbiamo detto prima e che va gestito in un altro modo perché non tutto va gestito come rischio, non tutto è violenza, non tutto è abbandono, non tutto è maltrattamento.
Detraiamo, dunque, dal totale il 74 per cento dei casi per i quali, invece, ci sono delle situazioni che si possono gestire con modalità differenti e proviamo a vedere se questo modello può essere applicato.
Quello che vorrei portare qui non sono i numeri che voi avete già, ma è la progettualità, cioè un’idea alla quale vorrei che questa Commissione prestasse attenzione perché questo caso pesa per il 70 per cento, quindi vuol dire che da quei 2 miliardi 800 milioni di euro di cui abbiamo parlato prima potrebbe esserne tratta una parte e che quella cifra potrebbe essere ridotta in maniera importante, cioè della metà secondo i nostri calcoli. Inoltre, quello che avanza in termini di risorse economiche, ma soprattutto in termini di competenze e di capacità di psicologi, assistenti sociali ed educatori, dovrebbe davvero essere utilizzato per le persone che si trovano in quel 25,9 per cento dei casi e in una condizione dove veramente c’è un rischio di violenza, c’è un rischio di abbandono e c’è un rischio di maltrattamento.
Quello che noi chiediamo, alla fine di questa presentazione che io ho praticamente concluso, è di dedicare attenzione e non denaro, cioè di non destinare delle risorse, ma dedicare attenzione a questo progetto. Lo dico perché, se questo progetto produce un risultato, studiamolo e cerchiamo di fare in modo di coinvolgere le persone che lavorano già in questo ambito e che hanno competenze perché possano adottarlo come modello e possano creare degli interventi cuscinetto che allontanino il 70 per cento di quelle persone dal rischio di disadattamento sociale. Quello che succede è che io sto creando un disadattato sociale di cui domani mi devo preoccupare e occupare. Questo è il nostro obiettivo. Grazie per il tempo che mi avete dedicato.

PRESIDENTE. Grazie a lei.
Sicuramente è interessante il modello che ci sta proponendo e soprattutto il fatto che abbia dato dei buoni risultati come esperienza pilota.
Noi qui, in audizione, abbiamo già avuto degli interventi che vanno in questa linea e molti auditi hanno sottolineato l’importanza della prevenzione, quindi il suo modello si colloca in quell’ambito, cioè laddove si interviene per prevenire che una situazione delicata di disagio economico-sociale o anche di tipo relazionale possa degenerare e portare poi agli allontanamenti. L’allontanamento dovrebbe essere davvero l’ultima soluzione.
Do la parola a Walter Correnti, presidente dell’Associazione «Un genitore per amico».

  WALTER CORRENTI, presidente dell’Associazione. «Un genitore per amico». Buonasera. Innanzitutto faccio i complimenti per questo intervento che è stato molto esaustivo.
Anch’io non avevo preparato un intervento con dei numeri perché i numeri già si conoscono praticamente tutti.
Noi stiamo lavorando in maniera molto simile alla loro e abbiamo soltanto aggiunto una cosa. Abbiamo notato che uno dei motivi dell’allontanamento dei minori dalle famiglie, anzi, più che dalle famiglie, dalle coppie separate con cui lavoriamo, è la mancanza di un’abitazione o di un posto letto per uno dei coniugi. Il più delle volte, dove c’è una mancanza per entrambi di una casa, si portano mamma e bambino nelle case famiglie, quindi in strutture che sono pressoché delle carceri perché, in quelle che abbiamo visionato, il bambino e la mamma sono costretti a rispettare degli orari e delle situazioni molto rigidi.
Stiamo lavorando per chiedere in tutti i comuni – abbiamo iniziato a Prato – una struttura. Ci sono in tutti i comuni delle strutture vuote e in disuso dove poter costruire degli edifici che possano ospitare, in modo da dare la possibilità ai genitori di avere un posto letto senza alcun costo, perché ovviamente non deve avere un costo, e un luogo dove poter portare i propri figli.
Un’altra cosa che noi abbiamo notato, per quella percentuale di casi di cui parlava il collega, è che troppe volte, in quel 30 per cento di casi in cui ci dovrebbe essere l’allontanamento, non vengono veramente visionati e attentamente letti i documenti.
Io ho un caso veramente assurdo: è stato allontanato un figlio dal padre, accusato di una cosa che non ha mai fatto. Questo padre si è sottoposto spontaneamente a dei controlli. Tuttavia, il giudice, nonostante ci siano dei documenti che lo attestino, dice che inizialmente non si è sottoposto e poi che si è sottoposto in ritardo.
Nello stesso frangente, ho un altro caso di un padre che, invece, veramente ha dei problemi. Qui, il bambino non viene allontanato e addirittura il padre viene messo agli arresti domiciliari, all’interno della casa dove fa uso di alcune sostanze.
Io penso che troppe volte ci siano errori di valutazione da parte di chi dovrebbe gestire tali situazioni. Da parte nostra, vorremmo che un tribunale si occupi realmente e seriamente dei casi, perché secondo noi il più delle volte i tribunali per i minorenni fanno più danni che cose giuste.
Questo è quello che noi volevamo dire, perché il grosso è stato già detto dal collega. È inutile ripetere le stesse cose che ho qui per iscritto e che sono molto simili a quanto già detto.

  PRESIDENTE. La ringraziamo. A questo punto, siccome dobbiamo chiudere l’audizione fra una ventina di minuti, è utile lasciare spazio alle domande dei colleghi.
Io stessa ne avevo altre, però do la precedenza intanto ai colleghi che vogliano intervenire, così voi poi rispondete.

   LOREDANA LUPO. Intanto ringrazio per le informazioni fornite.
Vorrei sapere se è possibile avere nel dettaglio questo tipo di progetto che voi avete portato avanti per comprenderne realmente la funzionalità e compararlo con quello che dovrebbe realmente accadere.
Mi domando perché questo stesso processo non viene attuato dalla macchina pubblica. Per il fatto stesso che voi un po’ crudelmente – fortunatamente – avete deciso di fare quelle interviste e siete riusciti a ottenere, quindi a toccare la verità con mano, mi spinge a domandarmi: come mai, per quelle persone che dovevano essere informate e che dovevano avere quella tipologia di documento, secondo un complesso di regole che sono già normate e che esistono, tali norme non sono state applicate? Perché non avviene questa applicazione? Dov’è la falla? Questo strumento pubblico è così fallimentare o in realtà è costruito bene, ma è mal gestito? Qual è il problema, il nocciolo e la chiave?
Lo chiedo perché vedo che, in un percorso di vita come quello di Angela (chiamiamola con il proprio nome), c’era stato tutto il tempo necessario per poter far sviluppare l’autostima in questa persona e portarla ad avere una vita lavorativa e una propria famiglia adeguate, ma non è stato fatto, anzi le è stata sottratta l’unica parte affettiva della propria esistenza.
Questo è veramente vergognoso ed è la cosa più sconvolgente che si possa fare ad una madre. Questa madre, che già era stata privata della famiglia d’origine e che non ha mai avuto reali affetti, stava per costruirne una sua. Il momento in cui uno ha un figlio è quello in cui si sviluppa se stesso e colma quel vuoto affettivo che non ha avuto in precedenza, quindi mi domando il perché di un’azione del genere e cosa ha fallito in questo sistema. Quello di Angela è solo un caso e non oso immaginare quanti ce ne siano di questo tipo, al di là del fatto che è inaccettabile che sia la povertà a separare le famiglie.
Il Movimento 5 Stelle si batte con tanta ferocia nei confronti del reddito minimo di cittadinanza perché noi non possiamo neanche immaginare che sia questo il mondo futuro che dobbiamo dare alle generazioni. Vorrei capire dove noi possiamo realmente andare ad agire, perché questa non è una questione di denaro. Grazie.

  DONELLA MATTESINI. Grazie, presidente. Vorrei fare solo alcune domande al nostro primo ospite perché non so se ho ben capito quanto ha detto.
In una parte sostanziale del suo intervento, al di là dell’aver raccontato nel dettaglio il progetto – mi unisco alla richiesta della collega Lupo di avere anche il dettaglio – lei ha insistito molto sull’inefficienza del sistema, partendo dai 145 intervistati di fronte all’ASL. Mi domandavo che vuol dire «di fronte all’ASL», perché di fronte all’ASL ci passa, per esempio, quello che va a pagare il ticket, quindi vorrei capire chi sono gli intervistati perché è chiaro che, a seconda di chi sono quei 145, si valida o meno quel dato. Questa è la prima domanda.
Sull’altra questione, noi abbiamo naturalmente la necessità – non a caso facciamo l’indagine conoscitiva – di testare la validità o meno delle norme per poter regolare e dare norme nuove, rispetto a tutto il processo, tra affido e adozione, e il tema della cura delle famiglie, tant’è che il Piano nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, che abbiamo appena approvato e che ancora è alla firma del Presidente della Repubblica, dedica a questa parte del sostegno intorno alla famiglia, quindi della valorizzazione e anche della competenza e della capacità residua della famiglia, non soltanto relativamente ai temi di carattere economico, una parte fondamentale.
Vi dico, per ribadire tra di noi le cose che intanto stiamo facendo, che dentro la legge di stabilità finalmente c’è quel fondo sostanzioso di lotta alla povertà minorile, quindi delle famiglie con minori a carico, ma ci sono anche progetti importanti che riguardano la povertà educativa perché il tema è esattamente questo.
Penso che, dentro questo quadro, il ragionamento che stiamo facendo possa portare a cercare intanto nel percorso, anche normativo, raccordi diversi. Io spero che con l’approvazione del referendum sulla riforma costituzionale recuperiamo quell’altro grande gap, perché voi avete raccontato due realtà diverse. Io, tra l’altro, sono toscana, per cui non saprei.
Noi sappiamo che, con il Titolo V, nel 2001 si è costruito in qualche modo un sistema così disarticolato, per quanto riguarda le politiche sociali, educative e sanitarie, che ha portato ad una grande differenziazione, quindi io spero che anche questo possa portare effettivamente a recuperare, come dice la riforma sotto il termine «Disposizioni generali e unitarie», anche un quadro che possa aiutare davvero a sostenere tutto il percorso di sana crescita, di diritto al benessere eccetera dei minori e delle proprie famiglie.
Questo lo dico per fare il punto, però vorrei aggiungere che l’ho provato anche altre volte, come oggi, con un po’ di difficoltà. Voi ci raccontate senza darci nomi e cognomi – lo dico, per esempio, rispetto al caso che citava lei – e ci segnalate situazioni, per cui francamente, essendo noi anche, come parlamentari, pubblici ufficiali, o voi citate i nomi e i cognomi e noi ne facciamo oggetto di approfondimento, oppure limitatevi perché diventa veramente un elemento abbastanza delicato. Ci raccontate cose per le quali date una descrizione di inefficienza e non solo, perché talvolta si descrive anche una cattiva volontà da parte delle istituzioni preposte. Vi ripeto, o le dimostrate o per favore non parlatene in questi termini. Io non credo che possiamo accogliere questo livello. Siamo in una sede istituzionale, quindi si richiede rispetto reciproco.

  PRESIDENTE. Io intanto vorrei sottolineare alcuni aspetti che lei ha illustrato.
Innanzitutto lo vorrei fare sui dati perché noi su questo avevamo già attenzionato una situazione di disagio, nell’esaminare questa condizione dei minori fuori famiglia, dal momento che i dati non sono certi e, come sembra dalla vostra analisi, non corrispondono neppure a quelli dell’Emilia-Romagna, quindi figuriamoci a quelli dell’Italia.
Io credo che un aspetto importante sia quello di suddividere, all’interno dei dati, le motivazioni dell’allontanamento e credo che in questo ci abbiano dato un’indicazione molto importante da riportare anche all’interno della struttura ministeriale che si fa carico di predisporre questi dati che ancora oggi sono fermi purtroppo al 2012.
Già sarebbe importante questa suddivisione perché emerge appunto una realtà veramente preoccupante. Come diceva anche la collega Mattesini, testando la validità delle norme, probabilmente emerge anche una verifica di inefficienza di queste norme o quanto meno che le norme lasciano troppe marginalità di azioni. Su questo, le chiedo se l’articolo 403 a suo avviso deve essere rivisto, perché io ho anche presentato una proposta di legge per migliorare le possibilità di intervento del 403 che al momento è troppo ampio come utilizzo. Voi che tipo di esperienza avete in questo?
Per quanto riguarda il discorso del legame fra tutore e chi assegna il tutore e l’avvocato del minore, effettivamente anch’io ho verificato più volte che è il sindaco diventa il tutore. Ora, mi sembra alquanto improbabile che il sindaco si possa occupare a pieno titolo dei minori, però purtroppo, quando viene sospesa e quindi eliminata la potestà genitoriale, ci si trova in una condizione in cui è necessaria subito la prontezza di garantire chi davvero si occupa del minore, in modo da difendere i sui veri interessi. Lo dico perché qui il punto che bisognerebbe anche capire è qual è il bene il minore, ma in maniera sincera. Lo può fare un tutore che se ne fa carico.
L’ultima domanda che vorrei porre riguarda quello che diceva anche la collega, cioè di precisare ciò che accade. Io conosco il caso di questa ragazza, Angela, e la cosa che a me preoccupa ancor di più è anche la non corrispondenza del progetto predisposto dagli assistenti sociali con la struttura di accoglienza della ragazza. La struttura non corrispondeva di fatto al progetto che doveva essere portato avanti, quindi anche su questo chiedo precisazioni. Lo dico perché noi possiamo approntare anche un ottimo progetto, ma poi non c’è corrispondenza con le strutture, così com’è sono.
Io personalmente sono andata anche in visita alla struttura e per caso ha avuto modo di rendermi conto che lì non c’era l’appartamento per la autonomia della ragazza col bambino, previsto non solo dagli assistenti sociali, ma dallo stesso giudice, quindi anche in questo ci vorrebbe un controllo. Vi domando: ci vorrebbe un controllo tra ciò che viene predisposto anche con un programma, qualora ci sia, nella maniera più virtuosa e l’attuazione di tale programma? Grazie.

  GABRIELE BARTOLUCCI, vicepresidente dell’Associazione «Genitori sottratti». Vorrei rispondere brevemente a tutte le osservazioni.
Per quel che riguarda la precisazione sulle interviste, posso dirvi che sono state fatte a 156 persone che hanno avuto minori in carico dai servizi per la tutela dei minori e che erano davanti all’ASL dove ha sede anche il Servizio per la tutela dei minori di Rimini, presso il fabbricato Colosseo per l’esattezza.
Abbiamo chiesto a chi aveva diritto di ricevere un progetto educativo individuale se sapeva che cos’è il progetto educativo individuale e non a chi è andato a fare la TAC, perché non avrebbe senso e sarebbe campato per aria. Abbiamo chiesto se queste persone erano informate di ciò che le riguardava e di quelli che erano i loro diritti. È sostanzialmente come per la Carta del malato: chi entra in ospedale sa che esiste la Carta dei diritti del malato e sa che non può essere sottoposto ad un trattamento sanitario, se non lo ritiene opportuno, per cui, a prescindere dal fatto che sia giusto oppure no, deve conoscere questo documento o perlomeno averlo ricevuto. Abbiamo chiesto a chi aveva minori in carico dal Servizio per la tutela dei minori e non ad altri. C’è stato uno screening,perciò abbiamo impiegato cinque giorni, altrimenti l’avremmo sviluppato più velocemente.
Per quello che riguarda i casi documentati, in nomi sono tutti quanti, salvo uno, nomi di fantasia per una questione puramente procedurale, ma sono tutti documentati e documentabili. Noi abbiamo il mandato, cioè la delega da parte delle persone che ci hanno autorizzato a divulgare queste informazioni, a rappresentarli, quindi a dire che questi sono i dati delle persone, altrimenti non avrebbe senso neppure da parte nostra e non ci sarebbe serietà, cioè non potremmo riportare delle testimonianze a latere non avendo i documenti disponibili perché sarebbe poco serio e poco rappresentativo.
Come dicevo, tutti i casi descritti sono documentabili. È chiaro che non li riporto per brevità, perché staremmo qua fino a tardi, però è a disposizione tutto quello che è stato descritto qui e ancora di più.
Per quello che riguarda la trasparenza nelle informazioni, all’interno dell’attività svolta dai servizi sociali, alcuni di questi casi citati sono stati richiamati davanti all’ordine di categoria dei servizi sociali.
Ce n’è uno in particolare, relativo al caso della signora con due figli da due unioni differenti, con l’allontanamento di una bambina tra le due, in cui i genitori si sono rivolti alla commissione deontologica che praticamente costituisce il primo livello di valutazione dell’operato dell’assistente sociale. Lo hanno fatto forti nel fatto che c’è una sentenza, quindi un dispositivo ufficiale del tribunale per i minorenni di Bologna, a firma del dottor Guido Stanzani (morto), che dice: «l’assistente sociale ha deliberatamente violato l’ordine del giudice, impedendo alla madre di incontrare la figlia».
Di fronte ad un’affermazione di questo genere, ci si aspetta dall’ordine di categoria che prenda provvedimenti nei suoi confronti, mentre invece in quel caso ha assolto l’assistente sociale dicendo che, pur avendo violato l’ordine del giudice, non ha violato il codice deontologico, il che per una persona di media intelligenza è un po’ difficile da capire.
Noi abbiamo fatto delle statistiche, per cui abbiamo dati ufficiali sia dell’ordine di categoria ORDIAS delle Marche che dell’OASER dell’Emilia-Romagna e sappiamo che ci sono stati accessi di provvedimenti deontologici, disciplinari, ma, nell’arco di cinque anni, nessuno di questi ha portato alla segnalazione, che è il minimo del minimo sindacale come richiamo nei confronti dell’assistente sociale.
Questo non è un processo all’assistente sociale, ma dobbiamo prendere atto del fatto che ci sono delle incongruenze. La legge italiana è particolarmente attenta alla tutela del minore perché appunto distribuisce tutta una serie di figure che se ne devono prendere carico, ma se queste figure vengono in qualche modo assorbite, cioè esistono solo come ologrammi, ma poi, guardando in prospettiva, ti rendi conto che il tutore è un assistente sociale, che il giudice tutelare lo nomina tra gli assistenti sociali e che l’avvocato del minore viene nominato dal servizio sociale.
La vicepresidente Blundo diceva prima che il tutore è un sindaco e io vi dico deo gratias, quando è il sindaco. L’Italia è un Paese di comuni, di cui alcuni grandi, ma molti piccoli, dove ragionevolmente ha senso questo perché il sindaco è la massima autorità presente sul territorio dal punto di vista sanitario. Escluse città come Milano, Roma e Napoli dove non avrebbe senso, nei comuni da 3.500 abitanti il sindaco conosce i cittadini, per cui questo ha senso.
Ancora più ha senso formare delle persone perché lo facciano come tutore volontario. Prima mi riferivo al progetto della provincia autonoma di Trento, che ha investito risorse per togliere dal burocratico e riportare nell’umano la figura del tutore, quindi non un tutore con 200 tutele, ma con una tutela, con un bambino, una famiglia, che possa vedere che cosa succede in quella famiglia e che esigenze ha quel bambino.
Normalmente succede – per rispondere alla senatrice – che il tutore legalmente è il sindaco che può delegare qualcuno a rappresentarlo, cioè un assessore, tipicamente quello ai servizi sociali. Nelle esperienze in Italia dove i servizi sociali sono gestiti su delega dalle ASL, il tutore è delegato all’ASL, quindi di nuovo il tutore è nominato dal servizio sociale. Tuttavia, come fa il servizio sociale a nominare una figura che dovrebbe essere aperta rispetto a se stessa e controllarsi da sola?
Lo chiedo perché questo è quanto succede. Le leggi ci sono e le norme sono perfettamente disponibili, ma non sono conosciute, quindi è come se non ci fossero, e, se non sono conosciute, non possono essere attuate né reclamate. In effetti, se vi dico che la Carta dei servizi sociali è legge dello Stato dal 2003, ma siamo nel 2016 e non c’è un comune in Italia che l’ha attuata, vi sto dicendo che, a maggior ragione, le persone che riceveranno l’erogazione del servizio da parte del Servizio per la tutela dei minori non sanno di che cosa stanno parlando, non conoscono i loro diritti, quindi, se non li conoscono come fanno a reclamarli?
Per quello che riguarda la riforma dell’articolo 403, posso dire che sicuramente va riformato e soprattutto va definito chi deve intervenire e in che tempi. L’intervento di allontanamento, se è necessario, deve essere urgente, ma deve essere urgente anche capire, altrimenti diventa un’incarcerazione sine die. Intendo dire che, se c’è un problema nella famiglia e metto in tutela il bambino, il bambino in realtà lo sto mettendo a in gabbia, cioè gli sto impedendo la relazione con i suoi genitori.
È necessario capire, quindi va sicuramente ristretto l’ambito e va precisato il modo di intervento e vanno fatte delle task force dedicate per fare questo tipo di attività. Certo, c’è quello che vediamo in televisione e che leggiamo sui giornali e possiamo raccontarcela come ci pare, ma i bambini non sempre vengono allontanati come abbiamo visto in televisione perché spesso arrivano i servizi sociali con le Forze dell’ordine in borghese a scuola, li prendono e li portano via. Questa non è una bella esperienza. Io credo che ci siano molti modi per intervenire e che quello sia l’ultimo. Stiamo trattando un bambino come un delinquente e non credo che questo sia il modo di fare giusto.
Come dicevo, i documenti sono disponibili e sicuramente li fornirò – mi direte come – insieme al dettaglio del progetto Angel. Grazie.
Non so se ho dimenticato qualcosa.

      PRESIDENTE. Non so se il dottor Walter Correnti vuole aggiungere qualcosa.

  WALTER CORRENTI, presidente dell’Associazione «Un genitore per amico». Certo, possiamo documentare tutto, però io penso che ci sarebbe da aggiungere che il problema principale è, secondo me, come diceva anche il mio collega, che i servizi sociali non hanno nessuno che li controlla e la fanno sempre da padroni.
Inoltre, si usano i servizi sociali per dei casi in cui non servono e vengono buttati via dei soldi, mentre se si usassero per i casi in cui servono, ci sarebbero tante risorse da utilizzare per chi è in quelle situazioni dove veramente ci sono dei bisogni reali. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie agli auditi e a tutti voi.
Dichiaro conclusa l’audizione.

  La seduta termina alle 14.55.

Redazione Genitori Sottratti

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