di Marcello Adriano Mazzola
Non occorre essere avvocati, non occorre essere vittime, non occorre essere psicologi, non occorre essere uomini per comprendere quanta sfrontata disparità di trattamento vi sia tra uomo e donna nell’ambito del diritto di famiglia, dopo una “separazione” (in senso lato, e dunque anche tra conviventi more uxorio). Occorre essere solo persone di buon senso, dunque equilibrate, oggettive, prive di pregiudizi, informate con dati alla mano. 
Certo in anni in cui sono state create le Commissioni Pari Opportunità oramai anche nel condominio – per discutere pressoché di un solo argomento, quale il riequilibrio appunto delle pari opportunità in favore della donna, identificata quale soggetto debole – tutto questo fa sorridere oppure suggella l’argomento che affronto ora. 
Tuttavia è necessario affrontarlo, anzi a mio avviso prioritario. Perché quando si sfalda la famiglia e le parti (ergo il marito e la moglie, il convivente e la convivente, spesso anche nei confronti dei figli) non trovano amichevolmente un accordo, tale disparità può emergere prepotentemente perché indotta da terzi. Terzi chiamati a dirimere il conflitto, come vigili catapultati dall’alto nel traffico di Roma a piazza Venezia. Se non sono all’altezza, non solo il traffico non si snellisce ma ancor più si aggrava paralizzando in poco tempo la città. 
La metafora è necessaria per spiegare che l’importanza del “vigile” è fondamentale. Il “vigile” deve essere preparato, competente, aggiornato, multidisciplinare, retto, rigoroso, equilibrato, onesto. Non ultimo saggio, dunque esperto. Non è poco. 
Se manca tutto ciò dovrebbe essere rimosso e sanzionato. 
Il “vigile” non deve essere necessariamente il giudice. Può anche essere il mediatore. Se nonché è grottesco come il legislatore, accecato dalla furia di deflazionare il contenzioso (ergo, il processo civile) per manifesta incapacità di riformare la giustizia italiana (ma ancor più forse per manifesta carente volontà di riformarla) così prevedendo la “mediazione” obbligatoria in tantissime materie, se ne sia dimenticato proprio in materia di famiglia (a parte i “patti di famiglia”). 
Come mai non l’ha inserita proprio in una materia in cui sarebbe stata utile per attenuare e forse risolvere la conflittualità tra 2 genitori? 
Giova peraltro sottolineare come la conflittualità non sempre sia proveniente da entrambe le parti ma anzi spesso sia imposta da un coniuge all’altro. Uno è carnefice e l’altro vittima ed è necessario sapere distinguere i due ruoli. Non sempre entrambe le parti anelano a divenire carnefici. Soprattutto se di mezzo c’è un figlio. 
Ciò che è particolarmente grave è che in tale materia (separazione, divorzio, affidamento condiviso) il diritto di uguaglianza viene quasi sempre sacrificato in favore della donna. Tale diritto abdica al principio non scritto ma consolidato (perlomeno in Italia) secondo il quale la donna è il soggetto debole da tutelare, sempre e comunque, e l’uomo è il soggetto forte, se non da colpire quanto meno non da tutelare. Un volto anonimo, una figura informe, un’idea di donna. Senza un’identità. 
Una visione della donna arcaica, certo non allineata né con quello che è accaduto negli ultimi 50 anni, né con la società reale. Peraltro, come qualcuno ha giustamente fatto notare, anche una prospettiva degradante e squalificante della donna. Perché confinarla sempre e comunque quale “soggetto debole” è un esercizio culturale bieco e meschino, retaggio questo si di un ologramma mentale secondo il quale deve esservi indissolubile associazione tra donna-madre-casalinga. Una madonna da tutelare, sempre e comunque. Virginale anche quando non lo sia affatto. 
Ci si domanda in quale società vivano questi giudici, questi assistenti sociali. Ma anche questi psicologi e questi avvocati, che senza un barlume di deontologia e privi di alcun rigurgito di coscienza, si rendano servili a meri esecutori della volontà cinica, spietata, feroce, ingiusta, irresponsabile e da ultimo illegale dei propri clienti. Che spesso, ahimè spiace dirlo, sono donne. 
Personalmente non assumerei mai un incarico in una materia che so di non padroneggiare bene e mai assumerei la difesa di una donna (o di un uomo) che vuole distruggere il suo ex, ancor di più se di mezzo c’è un figlio. Men che mai lo inciterei a compiere atti di dubbia leicità, alterandone il volere. Temo che ciò avvenga. Con gravità e avidità, che si cumulano all’azione della separata (o del separato). 
E’ la donna che spesso brandisce il figlio contro il padre, usandolo come mero strumento della propria cinica vendetta, oppure solo per appagare la propria avidità e la sete economica. Forse anche di potere. Più raramente tale strumentalizzazione è posta dall’uomo. Il quale usa altre armi (economiche) ma va detto, in molti casi, anche per autodifesa dinanzi ad un sistema palesemente diseguale e insidioso. 
Certo conosco molte donne che mai penserebbero di comportarsi pregiudizievolmente verso il padre del figlio, e dunque verso lo stesso figlio al quale si rischia di causare danni gravissimi. Conosco padri irresponsabili che potrebbero fare di tutto tranne che i padri. E che per il bene dei figli dovrebbero stargli lontani. 
Se un genitore è equilibrato ed onesto, si mantiene saldo anche durante e dopo la separazione. Non sempre è così ma sicuramente può essere un presupposto per validare tale percorso. Una delle scriminanti di tale insulsa, grave, dannosa condotta (la strumentalizzazione del figlio) può essere il binomio equilibrio-onestà. 
Trattare questo argomento senza onestà intellettuale fa subito scattare l’accusa di sessismo, misoginia, maschilismo etc. Affrontare senza remore il potere delle donne, impropriamente fornito loro dai giudici (il 60% oramai è donna), fa scattare anche una reazione crociata. 
Ci sono tuttavia molte donne equilibrate, o anch’esse vittime, che riconoscono come il problema non sia solo presente ma anche palpabile. 
Ciò che accade nelle corti italiane ha dell’incredibile: quasi sempre l’uomo diviene un indebito percettore di reddito della donna, per se stessa e per i figli a prescindere (da effettive necessità e dal rendiconto), privandolo anche del necessario sostentamento e con indifferenza verso il suo prossimo futuro. La donna diviene portatrice di diritti consolidati, alla stregua di dogmi, l’uomo portatore di soli doveri. La donna diviene l’esclusiva nutrice e custode dei figli, l’uomo il rude cavernicolo che deve continuare a portare cibo e vestiario nella “caverna” (però di fatto non più sua) senza potervi entrare. Anzi magari contemplando dall’esterno il nuovo amante, al quale viene offerta anche la possibilità di essere chiamato “padre”. 
Emerge dunque una visione troglodita dell’uguaglianza tra uomo e donna che si scarica sulle spalle dell’uomo, espropriato della propria dignità, ancor prima che dei diritti, il quale matura una sorta di percorso kafkiano, calandosi appieno e suo malgrado ne “Il processo” dove viene additato e processato di continuo senza comprendere quale sia la sua colpa. Destinato a scontare colpe non sue ma solo per l’essere stato un tempo amante e generante. 
Il legislatore non scrive in alcun modo che tutto ciò debba accadere. Sarebbe stato troppo aberrante. E troppo contrario a qualsivoglia principio di diritto, forse anche di diritto naturale. 
Non lo fa soprattutto con l’affidamento condiviso nella cui legge n. 54/2006 vi è solo una ratio: quella di perseguire e assicurare la bigenitorialità al minore. E per fare ciò bisogna sforzarsi di trovare la soluzione più adeguata alla fattispecie concreta. Bisogna ascoltare, capire, focalizzare chi mente e chi non. Bisogna sanzionare e punire chi non mente. Bisogna avere coraggio. Ma il coraggio dell’onestà. Bisogna soprattutto essere responsabili. Perché il destino di molte vite dipende anche dalla tua decisione. 
Non occorre procedere per prassi e per moti perpetui consolidati (€ 300/mese, collocato presso la madre, un w.e. si e uno no, impunità assoluta della madre ed anche di trasferirsi a 1.000 km di distanza, ricorso e abuso degli assistenti sociali, etc. etc.) perché facendo ciò si tradisce la l. 54/2006 e soprattutto si contribuisce alla devastazione della società civile. Perché la nostra società è ancora fondata sulla famiglia, pur labile e franosa. E creare padri ghettizzati e donne spietate ed economicamente arricchite, certo non contribuirà a tutelare la famiglia. Creerà solo una schiera enorme di padri impoveriti (privati dell’affetto dei figli che dovranno elemosinare; ed comicamente precari) e di futuri imminenti adulti traumatizzati. 
L’alienazione parentale, la subdola strumentalizzazione di un figlio e dunque il grave abuso psicologico, il plagio, la menzogna, sono atti di estrema gravità che possono e devono essere sanzionati con l’affidamento esclusivo. Proprio perché eccezionale all’affidamento condiviso. Proprio per tutelare il minore. Il quale viene tutelato solo se si tutelano anche i genitori.
Dunque serve un cambio di rotta forte e immediato da parte delle corti. Perché se ciò non accadrà, suggerisco io, ci si rivolgerà presto alla Cour européenne des droits de l’homme per violazione della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. E poi ne vedremo delle belle.