Raggiunto il punto di non ritorno per la follia della Giustizia Familiare italiana: il figlio, anche se affidato esclusivamente al padre, deve stare con la madre, perfino se privata della potestà genitoriale
Solo una severissima responsabilità civile dei magistrati potrà arginare lo scempio di giustizia familiare che i giudici continuano dolosamente a perpetrare
Legittimo il provvedimento di sospensione del giudizio sull’affidamento dei figli in Italia per litispendenza con un procedimento pendente in un altro Stato anche se il petitum è diverso: l’importante è che il giudizio nazionale e quello estero abbiano “un identico rapporto sostanziale”.
Sono queste le conclusioni raggiunte dalle sezioni Unite civili della Cassazione con la sentenza 21108/2012 che ha respinto il ricorso di un padre italiano che aveva chiesto l’affidamento esclusivo della figlia minore portata dalla madre brasiliana nel suo Paese d’origine, dove era illecitamente trattenuta.
Il tribunale
[quale? – ndr] ha dichiarato la decadenza dalla potestà genitoriale della madre, affidato la figlia minore al padre e disposto il collocamento della bambina presso la donna nel caso in cui quest’ultima fosse rientrata in Italia insieme alla piccola. Ha poi posto a carico del padre, in tale eventualità, un contributo per il mantenimento della minore.
La decisione è stata riformata dalla Corte d’appello che ha sospeso il giudizio in attesa della definizione del procedimento pendente in Brasile tra le stesse parti avente ad oggetto l’affidamento della figlia, revocando tutte le statuizioni emesse in primo grado. In particolare il collegio di secondo grado ha affermato che la bambina non si poteva considerare residente in Italia dal momento che la durata della convivenza dei genitori nel nostro Paese era stata di soli dieci mesi. In questo contesto, pertanto, trovava applicazione l’articolo 7 della legge 218/1995 che, nel disciplinare la litispendenza internazionale, prevede la sospensione del procedimento successivamente instaurato, che nel caso in esame era quello italiano.
Contro questa decisione il padre ha presentato ricorso in Cassazione e la questione è stata assegnata alle sezioni unite sul rilievo che la sospensione del processo emessa dal giudice italiano a causa della pendenza di altro procedimento già instaurato all’estero dà vita a una questione di giurisdizione.
Nel merito il ricorrente ha censurato la decisione della Corte d’appello in relazione alla ravvisata ipotesi di litispendenza internazionale. In particolare l’uomo ha sostenuto che l’istituto non sarebbe rilevabile d’ufficio ma avrebbe dovuto essere eccepito da una delle parti. La litispendenza, inoltre, avrebbe come presupposto l’identità di petitum e di causa petendi, cosa non ravvisabile nel caso in esame, in quanto la domanda originaria del padre aveva ad oggetto anche l’emissione di provvedimenti relativi alla potestà genitoriale, non contemplati nella vertenza brasiliana. Infine ha contestato la decisione in quanto era stata omessa qualsiasi valutazione sulla possibilità che il futuro provvedimento estero fosse idoneo a produrre effetti in Italia.
Le sezioni unite non hanno accolto nessuna delle doglianze stabilendo che la non coincidente definizione della nozione di litispendenza adottata nell’ambito interno della giurisdizione ordinaria e in quello internazionale induce a ritenere che debba essere privilegiata un’interpretazione dell’articolo 7 della legge n. 218 del 1995, “non ancorata a criteri formalistici e restrittivi”. Ne consegue che la nozione di litispendenza internazionale richiede solo l’identità dei risultati pratici conseguiti a prescindere dal petitum. Infine, ha concluso il collegio di legittimità, nessuna valutazione induce a ritenere che “siano ravvisabili condizioni ostative al riconoscimento in Italia della sentenza brasiliana” [che è come dire: la Cassazione si augura che la giustizia brasiliana affidi la figlia alla madre rapitrice – ndr].
Fonte: www.cassazione.net