Quando a lavorare e pagare di più dev’essere l’uomo, vale il seguente principio:

Andare a vivere in una grande città può comportare vantaggi per un professionista, ma c’è anche il rischio di dover pagare un maxi mantenimento alla ex moglie e ai figli se si è separati. È quanto emerge da una sentenza della Corte di Cassazione secondo cui la città è certamente fonte di maggiori guadagni. Esistono infatti “sviluppi prevedibili” per la carriera che giustificano in caso di separazione un aumento del mantenimento per la ex moglie e per i figli.
La decisione è della prima sezione civile della Corte (sentenza n. 785/2012) che ha confermato la legittimità dell’aumento del mantenimento che un professionista dovrà pagare proprio per il fatto di essersi trasferito da un piccolo centro a una città più grande. Secondo la Suprema Corte, è corretta dunque la decisione dei giudici di merito che non solo avevano alzato il mantenimento in favore della ex moglie, ma avevano anche disposto un assegno mensile per i figli di 5.000 euro al mese.
Inutilmente il professionista ha tentato di difendersi in Cassazione chiedendo di alleggerire il suo impegno economico. La Suprema Corte ha respinto il ricorso ribadendo che “lo spostamento da una piccola località ad una città più grande integra sviluppi prevedibili“. 

(Fonte: StudioCataldi.it)

Quando, invece, a lavorare ed auto-sostentarsi dovrebbe essere la donna, vale il principio opposto:

Scatta l’aumento dell’assegno di mantenimento per la ex moglie anche se vive in una metropoli in cui sarebbe più semplice trovare un impiego. È irrilevante che la donna abbia un titolo di studio: bisogna valutare la situazione individuale, considerando l’età e la situazione contributiva (baby-pensionata a soli 49 anni).
Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza 4178 del 20 febbraio 2013, ha respinto i ricorso di un 63enne contro la decisione della Corte d’appello di Roma che ha aumentato l’importo dell’assegno divorzile nei riguardi della ex a mille euro al mese.
Per la prima sezione civile, l’astratta attitudine al lavoro della donna, desumibile dal suo titolo di studio e dalla sua residenza in una grande città come Milano in cui sarebbe «agevole attivarsi per un proficuo lavoro», risulta irrilevante. Sono elementi generici, quindi inidonei da incidere sul giudizio circa l’effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita; ma è necessario valutare gli elementi concreti del caso.
Insomma, sono stati posti a confronto i rispettivi redditi dei coniugi, riscontrando un notevole divario tra la pensione di lei e l’ammontare dello stipendio percepito da lui, desumendone l’inadeguatezza delle risorse di cui dispone la donna a mantenere il tenore di vita precedentemente goduto. Al riguardo, la Suprema corte ha osservato che «la separazione instaura un regime che tende a conservare quanto più possibile gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e quindi con il tipo di vita di ciascuno dei coniugi».
Per questo, l’attitudine del coniuge al lavoro assume rilievo solo in presenza dell’effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita che deve essere valutata in concreto, in relazione alla situazione individuale. Seguendo questa linea si configura, dunque, una negazione all’attitudine al lavoro in considerazione della sua età e all’avvenuto pensionamento.
All’ex marito, non resta che pagare anche più di tre mila euro di spese.
(fonte: www.cassazione.net)